venerdì 30 aprile 2010

Ama la verità

Ama la verità,
mostrati qual sei, e senza infingimenti e senza paure e senza riguardi.
E se la verità ti costa la persecuzione,e tu accettala;
e se il tormento, e tu sopportalo.
E se per la verità dovessi sacrificare te stesso e la tua vita,
e tu sii forte nel sacrificio.

San Giuseppe Moscati
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Che io mai più torni a volare rasoterra!

Signore mio Gesù: fa' che io senta, che assecondi a tal punto la tua grazia da svuotare il mio cuore..., perché lo possa riempire Tu, il mio Amico, il mio Fratello, il mio Re, il mio Dio, il mio Amore! (Forgia, 913)

Mi vedo come un povero uccellino che, abituato a volare soltanto da albero ad albero o, al più, fino al balcone di un terzo piano..., una sola volta ebbe l'ardire di arrivare fino al tetto di una casetta, che non era proprio un grattacielo...
Ma ecco che un'aquila afferra il nostro eroe — lo aveva scambiato per un pulcino della sua razza — e, fra i suoi artigli poderosi, l'uccellino sale, sale molto in alto, oltre le montagne della terra e le vette innevate, oltre le nubi bianche e azzurre e rosa, ancora più su, fino a guardare in faccia il sole...
E allora l'aquila, liberando l'uccellino, gli dice: — Forza, vola!— Signore, che io mai più torni a volare rasoterra! Che sia sempre illuminato dai raggi del Sole divino — Cristo — nell'Eucaristia!, che il mio volo non si interrompa, fino a trovare il riposo del tuo Cuore! (Forgia, 39)
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San Pio V, Papa

Pio V, nato a Bosco Marengo nel 1504, dalla nobile Famiglia Ghisleri, al battesimo fu chiamato Michele, nome che tenne anche da religioso.
A 14 anni prese l’abito Domenicano e sotto la tutela di Maria germogliò in lui quell’angelica pietà che fu l’anima e il segreto di tutta la sua vita.

Iniziò la carriera apostolica con l’insegnamento a Bologna e a Pavia. Successivamente fu chiamato a difendere la fede, minacciata in Italia dall’eresia di Lutero che stava oltrepassando le Alpi. Michele Ghislieri fu nominato Grande Inquisitore Generale, titolo che a nessun altro passò. Parve allora rivivere in lui un'altra Gloria dell’Ordine, S. Pietro da Verona, e se non dette il sangue, prodigò fatiche e sudori.

Papa Paolo IV (Giovanni Pietro Carafa) lo nominò Vescovo di Nepi e Sutri e due anni dopo lo creò Cardinale del titolo di Santa Maria Sopra Minerva. Il suo successore, Pp Pio IV (Giovanni Angelo Medici), lo trasferì alla Sede di Mondovì dove la fede era più minacciata, richiamandolo poi a Roma dove si richiedeva la sua scienza e la sua illuminata prudenza.
Alla morte di Pio IV i Cardinali, riunitisi in Conclave, lo elessero Papa.

Il 12 gennaio 1566, Pio V tracciò le linee del suo servizio pastorale: riformare la Chiesa secondo il Concilio Tridentino, mantenere la pace tra gli Stati cristiani, sconvolti dalla scissione protestante, e allontanare la minaccia dell’invasione turca.
Ai primi adulatori che si fecero avanti rispose secco:“Dio mi ha chiamato per servire la Chiesa, non perché la Chiesa serva me!” Ai parenti fece capire subito che non dovevano aspettarsi favori o privilegi, a loro doveva bastare di essere “i parenti del papa”.
Iniziò l’opera di attuazione dei decreti conciliari, partendo dal cuore della Chiesa: la preghiera, e il suo centro: l’Eucaristia. Il Concilio aveva sollecitato un rinnovamento liturgico e Pio V lo compì; curò la compilazione del“Catechismo del Concilio di Trento per i parroci”, un compendio delle verità rivelate che li aiutasse nella formazione dei fedeli; istituì la Congregazione che esaminasse i libri e pubblicasse l’indice di quelli proibiti, e istituì una commissione che preparasse un testo latino ufficiale e corretto della Sacra Scrittura. Intanto favorì nuovi metodi per gli studi biblici, pubblicando la “Bibliotheca Sancta” del domenicano Sisto di Siena.

In fedeltà alle decisioni conciliari, inoltre, richiese con fermezza ai vescovi che risiedessero nelle proprie diocesi, ai parroci nelle proprie parrocchie: la riforma occorreva cominciarla da chi era chiamato a “pascere il gregge di Dio”. Egli, in quanto vescovo di Roma, si preoccupò di incrementare la vita di fede, l’istruzione catechistica dei fanciulli, di ascoltare e sovvenire i poveri, di favorire opere di utilità pubblica, come dotare la città del primo lanificio, far giungere l’acqua migliore alle fontane, prosciugare le paludi.

La sua gloria più grande fu la celebre vittoria contro i Turchi del 7 ottobre 1571 riportata dalle forze cristiane da lui animate e che salvò in Europa la civiltà e la fede.
Grato a Maria, sua celeste alleata, istituì la festa del Rosario.

Sia da vescovo, che da cardinale, che da Papa, visse sempre come un povero religioso.
Passò gli ultimi giorni di aprile del 1572 a letto, tra forti sofferenze; morì la sera del 1° maggio; si concludevano 6 anni di un pontificato memorabile.
Papa Sisto V (Felice Peretti), decise che il suo sepolcro rimanesse in S. Maria Maggiore, come dire “in casa della Madonna”: il papa del Rosario poteva forse desiderare di meglio?

Papa Pio V fu beatificato a 100 anni esatti dalla morte, il 1° maggio 1672, da Pp Clemente X (Emilio Altieri) e dichiarato santo da Pp Clemente XI (Giovanni Francesco Albani) il 22 maggio 1712.

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Io sono la Via, la Verità e la Vita

San Bonaventura (1221-1274), francescano, dottore della Chiesa
Itinerario della mente a Dio, VII, 1-2,4,6

Chi si rivolge a Cristo, con dedizione assoluta, fissando lo sguardo sul crocifisso Signore mediante la fede, la speranza, la carità, la devozione, l'ammirazione, l'esultanza, la stima, la lode e il giubilo del cuore, fa con lui la Pasqua, cioè il passaggio ; attraversa con la verga della croce il Mare Rosso, uscendo dall'Egitto per inoltrarsi nel deserto. Qui gusta la manna nascosta, riposa con Cristo nella tomba come morto esteriormente, ma sente, tuttavia, per quanto lo consenta la condizione di pellegrini, ciò che in croce fu detto al buon ladrone, tanto vicino a Cristo con l'amore : « Oggi sarai con me nel paradiso » (Lc 23, 43).

Ma perché questo passaggio sia perfetto, è necessario che sospesa l'attività intellettuale, ogni affetto del cuore sia integralmente trasformato e trasferito in Dio. È questo un fatto mistico e staordinario che nessuno conosce se non chi lo riceve (Ap 2, 17)... Se poi vuoi sapere come avvenga tutto ciò, interroga la grazia, non la scienza, il desiderio non l'intelletto, il sospiro della preghiera non la brama del leggere, lo Sposo non il maestro, Dio non l'uomo.
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giovedì 29 aprile 2010

Preghiera allo Spirito Santo di S. Caterina da Siena


Spirito Santo, vieni nel mio cuore, per la tua potenza tiralo a te, Dio vero.

Concedimi carità e timore.

Custodiscimi o Dio da ogni mal pensiero.

Inflammami e riscladami del tuo dolcissimo amore,

acciò ogni travaglio mi sembri leggero.

Assistenza chiedo ed aiuto in ogni mio ministero.

Cristo amore, Cristo amore.

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lo sono la luce del mondo

meditazione del lunedì santo

I nostri peccati sono stati la causa della Passione: della tortura che deformava la fisionomia amabilissima di Gesù, perfectus Deus, perfectus homo. E sono ancora le nostre miserie a impedirci ora di contemplare il Signore, presentandoci opaca e contraffatta la sua figura. Quando la vista ci si intorbidisce, quando gli occhi si annebbiano, dobbiamo rivolgerci alla luce. E Cristo ha detto: Ego sum lux mundi! (Gv 8, 12) lo sono la luce del mondo. E aggiunge: chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita (Via Crucis, VI, n.1).

Questa settimana, tradizionalmente chiamata santa dal popolo cristiano, ci offre ancora una volta l'occasione di considerare — di rivivere — i momenti conclusivi della vita di Gesù. Tutti gli avvenimenti che le diverse espressioni della pietà richiamano in questi giorni alla memoria hanno come traguardo la Risurrezione che è il fondamento della nostra fede, come scrive san Paolo. Tuttavia non dobbiamo dirigerci troppo in fretta verso questa mèta; non dimentichiamo una verità elementare, ma che tanto spesso ci sfugge: noi non potremo partecipare alla Risurrezione del Signore se non ci uniamo alla sua Passione e alla sua Morte. Per essere con Cristo nella sua gloria, bisogna che prima aderiamo al suo olocausto per sentirci una sola cosa con Lui, morto sul Calvario (...).
Meditiamo su questo Signore, coperto di ferite per amor nostro. Usando un'espressione che si avvicina alla realtà, anche se non arriva a dire tutto, potremmo ripetere con un autore antico: « Il corpo di Gesù è un grande quadro di dolori ». La scena che ci presenta questo Cristo ridotto a uno straccio, un corpo martoriato e inerte deposto dalla croce e affidato a sua Madre, è come il ritratto di una disfatta. Dove sono le folle che lo seguivano? Dov'è il Regno di cui annunciava l'avvento? Ma non è una sconfitta; è una vittoria: ora Egli è più che mai vicino al momento della Risurrezione, della manifestazione della gloria che ha conquistato con la sua obbedienza. (È Gesù che passa, 95)
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Santa Caterina da Siena

Compatrona d’Italia e d’Europa
Dottore della Chiesa (festa)


Caterina nasce a Siena, nel rione di Fontebranda (oggi Contrada dell’Oca), il 25 marzo 1347, dal tintore Jacopo Benincasa e da Lapa di Puccio de’ Piacenti. È la 24.ma di 25 fratelli e sorelle.

Nel 1353, all’età di sei anni, ha la prima visione di Cristo Pontefice, accompagnato dagli apostoli Pietro e Paolo e dall’evangelista Giovanni; è un’esperienza fondamentale per tutta la sua vita, infatti intuisce che deve rivolgere cuore e mente a Dio facendo sempre la Sua volontà. A sette anni fa voto di verginità perpetua ma la famiglia ostacola la vocazione e, pertanto, le impediscono di avere una camera per sé e la costringono a servire in casa. Un giorno il padre la sorprende in preghiera con una colomba aleggiante sul capo e decide, allora, di lasciare libera la giovane di scegliere la propria strada.

Dopo anni di preghiere e penitenze, Caterina riceve, nel 1363, l’abito domenicano del Terz’Ordine (Mantellate, laiche). Nella sua cameretta, molto spoglia, conduce per alcuni anni vita di penitenza.
Lei stessa racconta di aver ricevuto dal Signore il dono di saper leggere; imparerà più tardi anche a scrivere, ma la maggior parte dei suoi scritti e delle sue corrispondenze sono dettate.

A vent’anni, al termine del Carnevale del 1367, racconta che le apparve Gesù con sua Madre per sposarla a Sé nella fede, ricevendo un anello, adorno di rubini, che sarebbe stato visibile soltanto ai suoi occhi. Detta le prime lettere ed ha inizio la sua attività caritativa: poveri, malati, carcerati, spesso ripagata da ingratitudine e calunnie. Nel 1368 muore il padre.

Nel 1370 avviene lo scambio dei cuori tra Caterina e Gesù.
Nel 1371 si aggiungono a Caterina i primi discepoli, chiamati per scherno “caterinati”.
Nel 1373 Caterina comincia ad indirizzare lettere a personalità di rilievo del mondo politico affermando, fra l’altro, che :“Niuno Stato si può conservare nella legge civile in stato di grazia senza la santa giustizia”.
Nel maggio del 1374 è a Firenze, dove acquista nuovi amici e discepoli. In questo stesso periodo le è dato, come direttore spirituale, fra Raimondo da Capua (suo biografo postumo). Nell’estate è a Siena per assistere gli appestati; nell’autunno è a Montepulciano.
Nel 1375 viaggia a Pisa e a Lucca per dissuadere i capi delle due città dall’aderire alla lega antipapale.

Il 1° aprile, in Santa Cristina a Pisa, riceve le stimmate invisibili. Nel drammatico e vitale Trecento, tra guerra e peste, l’Italia e Siena possono contare su Caterina, come ci contano i colpiti da tutte le sventure, e i condannati a morte: ad esempio quel perugino, Nicolò di Tuldo, selvaggiamente disperato, che lei trasforma prima del supplizio: “Egli giunse come uno agnello mansueto, e vedendomi, cominciò a ridere; e volse ch’io gli facessi il segno della croce”.

A maggio del 1376, parte per Avignone, dove arriva il 18 giugno; il 20 vede Gregorio XI (Pierre Roger de Beaufort), che si decide a partire per l’Italia il 13 settembre, passando per Genova, dove Caterina lo convince di nuovo a proseguire il viaggio per Roma : vi arrivò il 17 gennaio 1377. Tornata a Siena, Caterina fonda il monastero di S. Maria degli Angeli, nel castello di Belcaro. In estate si reca in Val d’Orcia per pacificare due rami rivali dei Salimbeni e qui riceve quella straordinaria illuminazione sulla verità che sta alla base del “Dialogo della Divina Provvidenza”.
All’inizio del 1378, su incarico del Papa, va a Firenze per trattare la pace (ottenuta il 18 luglio). Frattanto Gregorio XI muore il 27 marzo e gli succede, l’8 aprile, Urbano VI (Bartolomeo Prignano), osteggiato nel collegio dei cardinali che il 20 settembre eleggono Clemente VII (Roberto di Ginevra): è l’inizio dello scisma d’occidente. Caterina, chiamata a Roma da Urbano VI, il 28 novembre, nel concistoro incoraggia fervorosamente il pontefice e i cardinali rimasti fedeli (definisce i tredici cardinali scismatici demoni incarnati). Nel 1379 è intensa l’attività epistolare per dimostrare a principi, uomini politici ed ecclesiastici, la legittimità dell’elezione di Urbano VI.
Caterina si consuma nel dolore per la Chiesa divisa: se ne trova un’eco nelle “Orazioni” che i discepoli colsero dalle sue labbra. La rivolta dei romani, nel 1380, contro Urbano VI è per Caterina nuovo motivo di sofferenza. Quasi allo strenuo delle sue forze riesce ancora, sotto l’impeto della volontà, ad andare ogni mattina in S. Pietro e trascorrervi l’intera giornata in preghiera.
Dalla metà di febbraio è immobilizzata a letto: muore il 29 aprile sul mezzogiorno, ad appena 33 anni, ed è sepolta a Roma in S. Maria sopra Minerva.
Successivamente fra Raimondo di Capua soddisferà il desiderio dei senesi portando a Siena il capo della santa, tuttora in S. Domenico. Il corpo, dal 1855, si trova sotto l’altare maggiore della Basilica minerviana a Roma.

Il 29 giugno 1461 Pp Pio II (Enea Silvio Piccolomini,senese) proclama Caterina santa (festa: prima domenica di maggio; successivamente 30 aprile ed oggi il 29 aprile, giorno del “dies natalis”.
L’8 marzo 1866 il Beato Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti) proclama S. Caterina compatrona di Roma.
Il 18 giugno 1939 S. Caterina da Siena e S. Francesco d’Assisi sono proclamati, da Pp Pio XII (Eugenio Pacelli), patroni primari d’Italia.
Il 4 ottobre 1970, il servo di Dio Paolo VI (Giovanni Battista Montini) riconosce a S. Caterina il titolo di Dottore della Chiesa.
Il 1° ottobre 1999, il Servo di Dio Giovanni Paolo II (Karol Józef Wojtyła) proclama S. Caterina compatrona d’Europa.

Per quanto riguarda le sue Opere Letterarie, S. Caterina, semianalfabeta e i cui scritti sono in maggioranza dettati, ha avuto un grande riconoscimento grazie anche alla testimonianza del suo primo biografo, fra Raimondo da Capua (beatificato nel 1899 da Pp Leone XIII), al quale la santa gli aveva predetto l’elezione a Maestro generale dei Domenicani, suo Confessore e testimone diretto del prodigioso dono di saper leggere e scrivere, testimone dunque anche delle sue opere Letterarie.
È grazie al “
Dialogo della divina Provvidenza”, dettato ad un gruppo di discepoli che scrivevano alla presenza, spesse volte, del suo Confessore, che il Servo di Dio Paolo VI proclamò S. Caterina da Siena Dottore della Chiesa. Nel “Dialogo” sono racchiuse profonde pagine di alta teologia, ancora oggi da approfondire e diffondere.
Oltre al citato “Dialogo” si conservano 381 Lettere e 26/27 Orazioni.

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Hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli

Santa Caterina da Siena (1347-1380), terziaria domenicana, dottore della Chiesa, compatrona d'Europa
Dialogo della Divina Provvidenza, 167 (trad. cfr. Ed Taurisano, Firenze, 1928, II p.586)



Tu, Trinità eterna, sei come un mare profondo, in cui più cerco e più trovo ; e quanto più trovo, più cresce la sete di cercarti. Tu sei insaziabile ; e l'anima, saziandosi nel tuo abisso, non si sazia, perché permane nella fame di te, sempre più te brama, o Trintà eterna, desiderando di vederti con la luce della tua luce...





Io ho gustato e veduto con la luce dell'intelletto nella tua luce il tuo abisso, o Trinità eterna, e la bellezza della tua creatura. Per questo, vedendo me in te, ho visto che sono tua immagine per quella intelligenza che mi vien donata dalla tua potenza, o Padre eterno, e dalla tua sapienza, che viene appropriata al tuo Unigenito Figlio. Lo Spirito Santo poi, che procede da te e dal tuo Figlio, mi ha dato la volontà con cui posso amarti. Tu infatti, Trinità eternà, sei creatore e io creatura ; e ho conosciuto – perché tu me ne hai data l'intelligenza, quando mi hai ricreata con il sangue del tuo Figlio – che tu sei innamorato della bellezza della tua creatura.


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mercoledì 28 aprile 2010

Chiedi vera umiltà

L'umiltà nasce come frutto della conoscenza di Dio e della conoscenza di sé stesso. (Forgia, 184)

Queste depressioni, perché vedi o perché scoprono i tuoi difetti, non hanno fondamento...Chiedi vera umiltà. (Solco, 262)

Rifuggiamo da quella falsa umiltà che si chiama comodità. (Solco, 265)

Signore, ti chiedo un regalo: Amore..., un Amore che mi conservi puro. — E un altro regalo ancora: la conoscenza di me, per riempirmi di umiltà. (Forgia, 185)

Sono santi coloro che lottano fino alla fine della loro vita: coloro che sanno sempre rialzarsi dopo ogni inciampo, dopo ogni caduta, per proseguire coraggiosamente il cammino con umiltà, con amore, con speranza. (Forgia, 186)

Se i tuoi errori ti rendono più umile, se ti portano a cercare con più forza l'appiglio della mano divina, allora sono cammino di santità: “Felix culpa!” — colpa benedetta!, canta la Chiesa. (Forgia, 187)

L'umiltà porta ogni anima a non scoraggiarsi davanti ai propri errori.— L'umiltà vera porta... a chiedere perdono! (Forgia, 189)
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San Luigi Maria Grignion di Montfort

Sacerdote e Fondatore

Luigi Maria (al secolo, Louis-Marie) Grignion nacque il 31 gennaio 1673 a Montfort, non lontano da Rennes, primogenito di una famiglia numerosa. Il padre, Jean Baptiste, era avvocato; la madre, Jeanne Robert, aveva due fratelli sacerdoti. I primi anni di vita di Luigi Maria furono trascorsi in parte con i genitori a Montfort, in parte presso una nutrice e in una casa di famiglia nella campagna vici na.

Nel 1684 il ragazzo venne mandato a Rennes e iscritto al collegio S. Tommaso Becket, tenuto dai Gesuiti. Qui egli trascorse otto anni di vita, dagli 11 ai 19 di età, ospite dello zio sacerdote Alain e alunno esterno del collegio.
A Parigi, Luigi Maria entrò nei seminari di S. Sulpizio. Per gli studi frequentava la vicina Sorbona, ma per l'alloggio vi erano diverse comunità, più o meno confortevoli, a seconda della retta che si era in grado di pagare. Aiutato da benefattori Montfort fu accolto prima in una comunità piuttosto povera, ma dignitosa. Dopo due anni, il fondatore e di rettore morì e la comunità si sciolse. Montfort passò in un altro convitto, veramente povero, dove si soffriva la fame e il freddo, tanto che durante l'inverno egli si am malò, finì in ospedale e rischiò di morire. Superata la malattia, riuscì infine a entrare nel seminario vero e proprio, dove rimase cinque anni, fino all'ordinazione sacerdotale.

Nel giugno del 1700 Grignion de Montfort venne ordinato sa cerdote. La sua vita da prete fu breve, solo 16 an ni, ma piuttosto tormentata. Uscito da S. Sulpi zio, si recò a Nantes, in una specie di case del clero, deside roso di dedicarsi alla predicazione delle missioni popolari. Vi si fermò circa un anno e svolse un po' di ministero, com presa qualche missione, ma il ritmo di vita gli sembrò trop po fiacco e alla prima occasione abbandonò la comunità.
Raccogliendo un invito, si recò a Poitiers, all'ospizio dei poveri, dove trovò un ambiente che sentiva più adatto al suo zelo di giovane prete. Emersero là le sue doti di organizzatore, sia per mettere ordine esterno, che a favore del bene delle anime.

A Poitiers incontrò Ma ria Luisa Trichet, che sarà la prima delle Figlie della Sa pienza, congregazione da lui fondata più tardi.Tornò a Parigi e per qualche mese ritentò l'espe rienza tra i poveri del grande ospizio parigino. Nulla da fare: venne allontanato.
Era il 1703 e Luigi Maria non aveva ancora trovato la sua strada. Doveva stare tra i poveri? O predicare le missioni e fare catechi smo nelle campagne? Pensò anche di farsi contemplativo, o di partire per le missioni estere.
A Parigi abitava in un povero locale, una specie di sot toscala, dove pregava e meditava. Era vicino ad una comunità di Gesuiti, che lo aiutarono con l'amicizia e buoni consigli. Tornò a meditare sull'amore di Dio, sulla sofferenza e la Croce di Gesù Cristo. Nella primavera del 1704 egli riprese il cammino verso Poitiers, viaggiando a pie di come faceva sempre. In quella città poté rimanere per due anni, dedicandosi alle missioni popolari e ottenendo buoni risultati, ma non mancarono incomprensioni e opposizioni e alla fine il vescovo lo licenziò dalla propria diocesi.

Di nuovo sbattuto tra le onde, Montfort non vedeva dove aggrapparsi. Decise allora di recarsi a Ro ma, in pellegrinaggio di fede e per chiedere lumi al Papa. Clemente XI (Giovanni Francesco Albani) lo ricevette il 6 giugno 1706 e lo confermò nella missione di evangelizzare il popolo, so prattutto nelle campagne di Francia. Gli diede un manda to speciale, nominandolo "missionario apostolico" e lo inviò a lavorare in comunione con i vescovi.
Per altri 5 anni, fino verso il 1711, Grignion de Montfort lavorò in diverse diocesi dell'ovest della Francia (Rennes, Saint‑Malò, Saint‑Brieuc, Nantes, Luçon, La Rochelle...). Predicò la missione al popolo, di parrocchia in parrocchia. Qua e là, in ricordo della missio ne, erigeva una croce o un calvario, restaurava una chiesa, istituiva o ravvivava una confraternita del Rosario, o di Pe nitenti. Componeva cantici che insegnava ai fedeli. I perio di di predicazione erano alternati a momenti di ritiro per una ripresa fisica e spirituale. Dapprima, in Bretagna, collaborò con un gruppo di missionari guidati dal sacerdote Giovanni Leuduger, poi se ne separò e scelse lui stesso i propri collaboratori, sia sacerdoti gesuiti, cappuccini e do­menicani, sia laici reclutati in proprio. Già dal 1705 trovia mo Maturino Rangeard, di Poitiers, che lo seguirà sempre; altri "fratelli" si aggiunsero più tardi, alcuni fecero i voti re ligiosi, altri no: Nicola di Poitiers, Filippo di Nantes, Luigi di La Rochelle, Gabriele, Pietro, Giacomo. Essi aiutavano nelle missioni e facevano scuola ai ragazzi poveri.

Per trovare dei sacerdoti che volessero unirsi a lui in "compagnia di missionari", bisognò attendere gli ulti mi anni. Nel 1715, Adriano Vatel, sacerdote formato a Parigi, era a La Rochelle in attesa di imbarcarsi per le mis sioni lontane. Luigi Maria lo convinse a rimanere con lui. Nello stesso anno si aggiunse al missionario un altro sacerdote, Renato Mulot, che sarà poi il suo esecutore testamentario e continuerà l’opera delle missioni dopo la morte del Montfort. Da questi laici e sacerdoti nacque la “Compagnia di Maria”.

Gli ultimi anni di vita e di lavoro (1711‑1716) si svolsero ‑ salvo qualche breve parentesi ‑ nelle due diocesi di Luçon e di La Rochelle, dove Montfort era accettato e sostenuto dai rispettivi due vescovi. Pur continuando un lavoro di tipo missionario, egli si inserì maggiormente nei progetti di pastorale locale, promuovendo forme di apostolato più stabili.
Da Poitiers fece ve nire le due postulanti religiose che aspettavano da anni: Maria Luisa Trichet e Caterina Brunet. Le fece entrare all'ospedale e affidò loro delle scuole; scrisse una Regola per queste prime “Figlie della Sapienza”. A La Rochelle impe gnò pure i "fratelli" laici nel fare scuola in modo stabile. Si dedicò maggiormente a costituire la sua compagnia di missionari, anche se tra i collaboratori di quel momento erano solo alcuni che pensavano di legarsi a lui.

A La Rochelle il missionario lavorò molto anche in città e ottenne grandi successi tra il popolo. Nella chiesa dei Domenicani tenne diverse missioni di categoria (uomini, donne, militari). Il contatto con gli am­bienti domenicani contribuì a fargli intensificare la predi cazione del Rosario e a promuoverne le confraternite.

La vita di Luigi Maria Grignion de Montfort si concluse il 28 aprile 1716, a Saint‑Laurent‑sur‑Sevre, in Vandea. Morì mentre predicava ancora una missione, indebolito dalle fatiche e vinto da una polmoni te, a soli 43 anni; le sue ultime parole furono: “Invano mi tenti! Sono tra Gesù e Maria. Deo gratias et Mariae! Non peccherò più”.
Fu sepolto nella stessa chiesa parroc chiale di Saint‑Laurent. Oggi sulla sua tomba è stata co struita una nuova basilica, meta di pellegrinaggi dalla Vandea e da tutta la Francia. Il Servo di Dio Giovanni Paolo II, il 19 set tembre 1996, volle onorare con una sua visita a Saint -Laurent il Santo che gli è stato di guida spirituale fin da gli anni giovanili.

Luigi Maria Grignion di Montfort venne beatificato, il 22 gennaio 1888, da Pp Leone XIII (Gioacchino Pecci), e canonizzato, il 20 luglio 1947, dal Pp Pio XII (Eugenio Pacelli).

Le Congregazioni che ha dato alla Chiesa, la “Compagnia di Maria”, le “Figlie della Sapienza” e i“Fratelli di San Gabriele” (congregazione che si è sviluppata dal gruppo di Fratelli riuniti da San Luigi Maria), crescono e si propagano prima in Francia e poi in tutto il mondo. Esse continuano a testimoniare il carisma di San Luigi Maria, prolungando la sua missione, che è di stabilire il Regno di Dio, il Regno di Gesù per mezzo di Maria.
Per più di cent'anni Montfort rimase conosciuto so lo nelle zone dove era vissuto. I suoi missionari continuarono a predicare al popolo, diffondendo la pratica della rinnovazione delle promesse battesimali e la consacrazione a Gesù per Maria. Nel 1842 venne ritro vato un suo manoscritto che lo rese famoso in tutto il mondo, il è “
Trattato della vera devozione a Maria”. L'idea centrale contenuta in questo libro è questa: come Gesù Cristo ha scelto Maria per venire al mondo e realizzare la nostra salvezza, così noi dobbiamo ricorrere a Maria e prenderla come modello per diventare pienamente conformi) a Gesù Cristo. Montfort propone quindi la tota le consacrazione a Gesù per mezzo di Maria e spiega co me vivere ogni giorno alla scuola di Maria per divenire copie viventi di Gesù Cristo.
Oltre al Trattato, Montfort ci ha lasciato altri scritti: i Cantici, con più di 20.000 versi; “L'Amore dell'e­terna Sapienza”, l'opera che ci parla dell'amore appassionato di Dio per noi, manifestato soprattutto in Gesù Cristo; il “Segreto di Maria”, sintesi del Trattato. Altre opere, rimaste spesso incompiute: unaLettera agli amici della Croce, la Preghiera infocata, il Segreto meraviglioso del S. Rosario, le Regoleper i suoi missionari e per le Fi glie della Sapienza, lettere e appunti.

L’insegnamento spirituale di S. Luigi Maria Gri gnion de Montfort è sentito oggi nella Chiesa come molto attuale. Nel documento del Concilio Vaticano II
Lumen Gentium, il capitolo VIII, Maria nel mistero di Cristo e della Chiesa, manifesta un chiaro in flusso della dottrina monfortana. La spiritualità cristolo­gico‑mariana vissuta e insegnata da Montfort è recepita sempre più dal popolo di Dio: molte associazioni laicali, congregazioni religiose e movimenti si ispirano ad essa. Il Servo di Dio Giovanni Paolo II, nella sua enciclica Redemptoris Mater, ricorda esplicitamente Grignion de Montfort tra i "mae stri e testimoni" della spiritualità mariana che la Chiesa intera è chiamata a vivere.
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Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre

Sant'Anselmo d'Aosta (1033-1109), monaco, vescovo, dottore della Chiesa
Meditazioni

O buon Signore Cristo Gesù, come sole tu illuminasti me che non ti cercavo né ti pensavo, e mi mostrasti come ero... Hai rimosso il peso che mi opprimeva dall'alto; hai respinto chi mi percuoteva con la tentazione... Tu mi chiamasti con un nome nuovo (Ap 2,17) tratto dal tuo nome e, incurvato com'ero, mi innalzasti fino alla tua visione dicendo: «Non temere, io ti ho riscattato, ho dato per te la mia vita. Se stai unito a me, fuggirai i mali in cui ti trovavi e non precipiterai nell'abisso verso il quale correvi; ma io ti condurrò nel mio regno...»

Sì, Signore, tutto questo facesti per me. Ero nelle tenebre e non lo sapevo..., scendevo verso gli abissi dell'ingiustizia, ero caduto nella miseria del tempo per cadere ancora più in basso. E nell'ora in cui mi trovavo senza soccorso, illuminasti me mentre non ti cercavo... Nella tua luce, vidi ciò che erano gli altri, e ciò che ero io...; mi desti di credere nella mia salvezza, tu che desti la tua vita per me... Lo riconosco, o Cristo, devo tutta la mia vita al tuo amore.

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martedì 27 aprile 2010

La saggezza è presso gli umili

«Quia respexit humilitatem ancillae suae» perché vide la bassezza della sua schiava... Ogni giorno di più mi persuado che l'umiltà autentica è la base soprannaturale di tutte le virtù! Parla con la Madonna, perché ci addestri a camminare per questo sentiero. (Solco, 289)

Se meditiamo la Sacra Scrittura, vedremo come l'umiltà è il requisito indispensabile per disporsi ad ascoltare Dio. La saggezza è presso gli umili [Pro 11, 2], dice il libro dei Proverbi. Umiltà significa vederci come siamo, senza palliativi, secondo verità. Costatando la nostra pochezza, ci apriremo alla grandezza di Dio: è questa la nostra grandezza.Lo comprendeva bene la Madonna, la Santa Madre di Gesù, la creatura più eccelsa tra quante sono esistite ed esisteranno sulla terra. Maria glorifica il potere di Dio che ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili [Lc 1 , 52].
E aggiunge che in Lei si è realizzata ancora una volta questa divina volontà: Perché ha guardato l'umiltà della sua serva, d'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata [Lc 1, 48].
Maria si mostra santamente trasformata, nel suo cuore purissimo, di fronte all'umiltà di Dio: Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio Di Dio [Lc 1, 35].
L'umiltà della Vergine è conseguenza dell'insondabile abisso di grazia che si opera con l'incarnazione della Seconda Persona della Trinità Beatissima nel seno di sua Madre sempre Immacolata. (Amici di Dio, nn. 96)
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Santa Zita

Lucca, dove Zita esercitò per quasi cinquant'anni l'umile mestiere di domestica, l'ha eletta sua patrona, e già al tempo di Dante, che la cita nella sua Commedia trent'anni dopo la morte, il suo nome era tutt'uno con la città toscana: parlando di un magistrato di Lucca, Dante, o meglio un diavolo nero, si limita a identificarlo come un "anzian di santa Zita".

Zita, nata nel 1218 a Monsagrati, un paese nei pressi di Lucca, proveniva da povera gente di campagna, le cui fanciulle, per farsi la dote e più spesso per non essere di peso alla famiglia, venivano collocate a servizio presso una famiglia di città.
Prima delle attuali conquiste sociali la professione di domestica equivaleva pressappoco a una servitù. Zita, posta a soli dodici anni di età a servizio della famiglia lucchese dei Fatinelli, accettò serenamente la sua condizione sociale, ben consapevole che, servendo la famiglia ospitante, serviva Dio, per il cui amore agiva e tollerava ogni sgarbo, sia da parte dei padroni, che dapprima la trattarono con ingiustificata severità, come da parte dei suoi compagni di lavoro, gelosi per il suo zelo e il suo totale disinteresse.

Zita è conosciuta per i suoi numerosi miracoli, operati a favore dei poveri e dei deboli. Per recarsi alla chiesa di San Frediano, passava per la porta che affaccia su via San Frediano, più vicina al palazzo dei Fatinelli, quando un giorno si imbatté in un povero che batteva i denti per il freddo. Senza esitare, rientrata a palazzo prese il primo mantello che le capitò a portata di mano. Il padrone non si accorse di nulla, poiché l’Angelo Custode attese Zita a quella stessa porta, per restituirglielo. Da allora, quell’ingresso alla chiesa di San Frediano è conosciuto come “Porta dell’Angelo”, ed il miracolo è ricordato nella vetrata posta sopra la porta.

Largheggiava nelle elemosine ai poveri, che bussavano alla porta della ricca dimora dei Fatinelli, ma donava del suo, perché viveva con molta parsimonia e il gruzzolo che metteva da parte si riversava come tanti rigagnoli a irrorare le aride plaghe dell'abbandono e dell'ingiustizia.

Si racconta che una compagna di lavoro, invidiosa della stima che Zita aveva saputo accaparrarsi (superate le prime umilianti prove, le fu affidata la direzione della casa), l'aveva accusata presso il padrone di dare via troppa roba ai poveri.
Un giorno, infatti, Zita venne sorpresa mentre usciva di casa con il grembiule gonfio per recarsi a visitare una famiglia bisognosa. Alla domanda del padrone rispose che portava fiori e fronde; lasciati liberi i lembi del grembiule, una pioggia di fiori cadde ai suoi piedi (a Lucca, il 27 aprile di ogni anno, Piazza San Frediano e i suoi dintorni si trasformano in un giardino per onorare Santa Zita).

La sua vita fu tutta un simbolico florilegio di virtù cristiane a riprova che in ogni condizione sociale c'è lo spazio per l'attuazione dei consigli evangelici. Le sue virtù la imposero, mentr'era in vita, all'ammirazione di quanti l'avvicinavano e dopo la morte, avvenuta il 27 aprile 1278, impressero un moto inarrestabile alla devozione popolare.
La sua tomba nella Chiesa di S. Frediano, che custodisce tuttora il suo corpo, rimasto incorrotto fino all'ultima ricognizione effettuata nel 1652, è sempre stata meta di pellegrinaggi.

Il suo culto fu solennemente approvato il 5 settembre 1696, da Pp Innocenzo XII (Antonio Pignatelli).
Santa Zita fu proclamata patrona delle domestiche, delle casalinghe e dei fornai da Pp Pio XII (Eugenio Pacelli).

Il nome Zita è una variante toscana di "cíta" o "cítta", che significa ragazza o, per estensione, zitella ma, in questo caso, vergine.

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Le mie pecore ascoltano la mia voce

Beata Teresa di Calcutta (1910-1997), fondatrice delle Suore Missionarie della Carità
No Greater Love

Riterrai difficile pregare, se non sai come fare. Ognuno di noi deve aiutare se stesso a pregare: in primo luogo, ricorrendo al silenzio; non possiamo infatti metterci in presenza di Dio se non pratichiamo il silenzio, sia interiore che esteriore. Fare silenzio dentro di sè non è facile, eppure è uno sforzo indispensabile; solo nel silenzio troveremo una nuova potenza e una vera unità. La potenza di Dio diverrà nostra per compiere ogni cosa come conviene; lo stesso sarà riguardo all'unità dei nostri pensieri con i suoi pensieri, all'unità delle nostre preghiere con le sue preghiere, all'unità delle nostre azioni con le sue azioni, della nostra vita con la sua vita. L'unità è il frutto della preghiera, dell'umiltà, dell'amore.

Nel silenzio del cuore, Dio parla; se starai davanti a Dio nel silenzio e nella preghiera, Dio ti parlerà. E saprai allora che non sei nulla. Soltanto quando riconoscerai il tuo non essere, la tua vacuità, Dio potrà riempirti con se stesso. Le anime dei grandi oranti sono delle anime di grande silenzio.

Il silenzio ci fa vedere ogni cosa diversamente. Abbiamo bisogno del silenzio per toccare le anime degli altri. L'essenziale non è quello che diciamo, bensì quello che Dio dice – quello che dice a noi, quello che dice attraverso di noi. In un tale silenzio, egli ci ascolterà; in un tale silenzio, parlerà alla nostra anima, e udremo la sua voce.
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lunedì 26 aprile 2010

Sapersi nulla davanti a Dio

È cosa molto grande sapersi nulla davanti a Dio, perché è proprio così. (Solco, 260)

Lascia che ti ricordi, tra gli altri, alcuni sintomi evidenti di mancanza di umiltà:
pensare che ciò che fai o dici è fatto o detto meglio di quanto dicano o facciano gli altri;
volerla avere sempre vinta;
discutere senza ragione o, quando ce l'hai,
insistere caparbiamente e in malo modo;
dare il tuo parere senza esserne richiesto, e senza che la carità lo esiga;
disprezzare il punto di vista degli altri;
non ritenere tutti i tuoi doni e le tue qualità come ricevuti in prestito;
non riconoscere di essere indegno di qualunque onore e stima, persino della terra che calpesti e delle cose che possiedi;citarti come esempio nelle conversazioni;parlar male di te, perché si formino un buon giudizio su di te o ti contraddicano;
scusarti quando ti si riprende;
occultare al Direttore qualche mancanza umiliante, perché non perda il buon concetto che ha di te;
ascoltare con compiacenza le lodi, o rallegrarti perché hanno parlato bene di te;
dolerti che altri siano più stimati di te;
rifiutarti di svolgere compiti inferiori;
cercare o desiderare di distinguerti;
insinuare nelle conversazioni parole di autoelogio o che lascino intendere la tua onestà, il tuo ingegno o la tua abilità, il tuo prestigio professionale...;
vergognarti perché manchi di certi beni... (Solco, 263)
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San Raffaele Arnáiz Barón

O.C.S.O. (Trappista)

“Molta gente m’interroga a proposito del silenzio della Trappa e io non so che rispondere perché il silenzio della Trappa… non è silenzio, è un concerto sublime che il mondo non avverte”.
È una delle citazioni di Raffaele Arnáiz Barón: il primo "Oblato" trappista, morto a soli 27 anni, che sia stato elevato all'onore degli altari.

Egli nacque il 9 aprile 1911 a Burgos (E), primogenito dei 4 figli che l'ingegnere forestale Raffaele Arnáiz y Sanchez de la Campa, uomo molto colto e gioviale, ebbe da Donna Maria de la Mercedes Barón Torres, sua consorte, coltissima in musica e devotissima. Tutte le mattine si recava in chiesa per prendere parte alla Messa e fare la comunione. In famiglia catechizzava personalmente i figli e li preparava alla prima comunione.
Brillante, intelligente, innamorato della vita, Raffaele studiava con profitto, dapprima in un collegio di Gesuiti a Burgos e poi nelle Asturie. Mentre si preparava a diventare un bravo architetto, nel suo cuore si fece strada un altro richiamo: spesso si immergeva in profonda preghiera perdendo il senso del tempo, portava il cilicio e talvolta preferiva dormire per terra. Il desiderio di consacrarsi totalmente al Signore si fece più concreto dopo alcune visite ad una Trappa di Cistercensi.

Fu lo zio materno ad accogliere la prima confidenza di Raffaele circa il suo desiderio di farsi monaco. I genitori, che avrebbero preferito vederlo concludere gli studi, infine si adeguarono e a soli 23 anni vestì l’abito bianco dei novizi cistercensi a San Isidro di Dueñas. Pieno di salute e di vitalità, come sempre, scrive a casa: “Ogni volta mi convinco sempre di più che Dio ha fatto la Trappa per me, e me per la Trappa”. Raffaele viveva tutto con gioia, perché nel monastero è possibile “unificarsi assolutamente e interamente alla volontà di Dio; vivere soltanto per amare e patire; essere ultimo in tutto eccetto che nell’obbedire”.

In meno di un mese, si verificò in lui il crollo improvviso della salute con l'insorgenza nel suo organismo del diabete mellito. L'abate, il P. Félix Alonso, in seguito al parere del medico, impose al novizio di ritornare in famiglia perché si sottoponesse al dovuto trattamento. In otto giorni aveva perduto 24 chili di peso. In un primo momento Raffaele si oppose con tutte le forze alla decisione presa. Difatti, singhiozzando, si avvinghiò al P. Teofilo (Francesco) Sandoval Fernàndez, suo confessore e direttore Spirituale, e gli disse: “Padre, voglio morire tra le sue braccia”.

In famiglia Raffaele superò la fase acuta del diabete abbastanza rapidamente tanto che il 31 luglio poté fare ritorno a Sant' Isidro in occasione della festa del P. Abate, ma la speranza della guarigione era sfumata per sempre.
Amareggiato nel vedersi escluso dalla vita monastica, il 9 ottobre 1935 scrisse all'abate chiedendo la carità di essere accolto di nuovo nella Trappa come "Oblato". Potrà così vivere nel monastero e portarne l'abito semplificato, senza l'obbligo di quelle osservanze che sarebbero risultate incompatibili con le sue condizioni di salute.
Dimorerà in infermeria con l'impegno, da parte di suo padre, di versare ai trappisti dall'11 gennaio 1936, giorno del suo ritorno, una determinata mensilità per la copertura delle spese richieste dalle cure. Col voler essere ostinatamente trappista, contro qualsiasi indicazione di prudenza umana, il Raffaele testimoniò la sua eroica fedeltà a una divina chiamata di cui era sicurissimo.
Nel suo diario spirituale scriveva: “Se il mondo immaginasse che martirio continuo è la mia vita! […] La mia vocazione è soffrire, soffrire in silenzio per il mondo intero, immolarmi in unione con Gesù per i peccati dei miei fratelli, per i sacerdoti, i missionari, per le necessità della Chiesa, per i peccati del mondo, per le necessità della mia famiglia”.

Raffaele Arnáiz Barón morì il 26 aprile 1938 dopo 19 mesi e 12 giorni di permanenza nella Trappa. Fu sepolto nel cimitero della comunità, ma dal 18 novembre 1965 egli attende la risurrezione nel sepolcro nuovo che i confratelli gli hanno eretto nella chiesa abbaziale di Sant' Isidro.

Durante la sua esistenza Raffaele ha scritto moltissimo per esigenze del suo spirito, non in prospettiva editoriale. Le sue opere vanno a ruba e gli hanno procurato la fama di “uno dei più grandi mistici del secolo XX”.
Già avanti nel suo itinerario di grazia si lascerà sfuggire il grido:
“Oramai non voglio che Dio, e la sua volontà sarà la mia... L'ansia di vedere Dio, l'impazienza dell'attesa, si perfezionano con la sottomissione assoluta alla sua volontà... Dio e la sua volontà: è l'unica realtà che occupa la mia vita”.
“Vedo la sua volontà persino nelle cose più umili e piccole che mi succedono. Da tutto ricavo un insegnamento che mi serve per comprendere di più la sua misericordia verso di me. Amo svisceratamente i suoi disegni e questo mi basta”.
Vivendo sempre alla presenza di Dio, egli doveva trovare facile, sotto l'azione dello Spirito Santo, farne la volontà, abbandonarsi con gioia, anche nei momenti di ripugnanza umana e stanchezza, con Gesù sulla croce, ai disegni del Padre per la sua gloria e la salvezza del mondo.

Il Servo di Dio Giovanni Paolo II ne riconobbe l'eroicità delle virtù il 7 settembre 1989 e lo beatificò il 27 settembre 1992;
l'11 ottobre 2009, Papa Benedetto XVI lo ha proclamato Santo.

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Chi entra per la porta, è il pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce

Teodoro di Mopsuestia ( ?-428), vescovo di Mopsuestia in Cilicia e teologo
Commento su Giovanni ; CSCO 115-116

Il guardiano di questo ovile, è il beato Mosè, che lo stabilì sui precetti della Legge per permettere a coloro che conducono la loro esistenza secondo queste norme di vivervi al sicuro. Il pastore... conduce gli uomini come delle pecore ai pascoli della retta dottrina, mostrando loro il cibo delle parole, quelle di cui devono nutrirsi prima, quelle di cui devono nutrirsi dopo. Mostra loro quale è il senso profondo di queste parole, come occorre capire le Scritture, e anche da quali dottrine ci si deve allontanare, dottrine che altri forse insegneranno per ingannarli, per la dispersione delle pecore...

«Ricerchiamo dunque, dice il Signore ai farisei, chi, di voi o di me, entra per la porta prescritta dalla Legge, chi compie con zelo i precetti della Legge, a chi Mosè, guardiano dell'ovile, apre veramente la porta, a chi concede lode e onore a motivo delle sue opere, chi viene dichiarato vero pastore. Se nel suo libro Mosè fa l'elogio di chi compie le precetti della Legge, certamente il compimento di questi precetti non si trova in voi bensì in me...

«Senza fare nulla di ciò che è utile alle pecore, ricercate solo il vostro vantaggio. Per questo motivo, non avete nessuna autorità per cacciare qualcuno... Io, a buon diritto e a giusto titolo, sono chiamato pastore, poiché prima ho osservato la Legge con cura; poi sono entrato per la porta prescritta dalla Legge, che mi è stata mostrata dal guardiano in persona; in fine ho compiuto con zelo quanto occorre fare per il bene delle pecore.»
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domenica 25 aprile 2010

Preghiera a Maria

Madre della Chiesa, e Madre nostra Maria,
raccogliamo nelle nostre mani quanto un popolo è capace di offrirti;
l'innocenza dei bambini,
la generosità e l'entusiasmo dei giovani,
la sofferenza dei malati,
gli affetti più veri coltivati nelle famiglie,
la fatica dei lavoratori,
le angustie dei disoccupati,
la solitudine degli anziani,
l'angoscia di chi ricerca il senso vero dell'esistenza,
il pentimento sincero di chi si è smarrito nel peccato,
i propositi e le speranzedi chi scopre l'amore del Padre,
la fedeltà e la dedizione di chi spende le proprie energie nell'apostolato e nelle opere di misericordia.

E Tu, o Vergine Santa, fa' di noi altrettanti coraggiosi testimoni di Cristo.
Vogliamo che la nostra carità sia autentica,
così da ricondurre alla fede gli increduli,
conquistare i dubbiosi,
raggiungere tutti.

Concedi, o Maria, alla comunità civile di progredire nella solidarietà,
di operare con vivo senso della giustizia,
di crescere sempre nella fraternità.

Aiuta tutti noi ad elevare gli orizzonti della speranza fino alle realtà eterne del Cielo.

Vergine Santissima, noi ci affidiamo a Te e Ti invochiamo, perché ottenga alla Chiesa di testimoniare in ogni sua scelta il Vangelo, per far risplendere davanti al mondo il volto del tuo Figlio e nostro Signore Gesù Cristo.

Giovanni Paolo II
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Non dolerti se vedono le tue mancanze

Quanto più mi esaltano, Gesù mio, tanto più umiliami nel mio cuore, facendomi comprendere quello che sono stato e quello che sarei se tu mi lasciassi. (Cammino, 591)

Non dimenticare che sei... il bidone della spazzatura.
—Perciò, se il Giardiniere divino ti utilizza, ti pulisce, ti lustra... e ti riempie di magnifici fiori..., né il profumo, né i colori che abbelliscono la tua bruttezza devono renderti orgoglioso.
—Umìliati: non sai che sei il secchio dei rifiuti? (Cammino, 592)

Non sei umile quando ti umilii, bensì quando ti umiliano e lo sopporti per Cristo.(Cammino, 594)

Non dolerti se vedono le tue mancanze; l'offesa a Dio e lo scandalo che tu potresti cagionare: questo deve addolorarti.
—Quanto al resto, lascia che sappiano come sei e ti disprezzino.
—Non ti dia pena essere niente, perché così è Gesù che dovrà darti tutto. (Cammino, 596)
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San Marco Evangelista

Marco Evangelista è conosciuto soltanto da quanto riferiscono gli Atti degli Apostoli e alcune lettere di S. Pietro e S. Paolo.
Non fu certamente un discepolo del Signore e probabilmente non lo conobbe neppure, anche se qualche studioso lo identifica con il ragazzo che, secondo il Vangelo di Marco, seguì Gesù dopo l’arresto nell’orto del Getsemani, avvolto in un lenzuolo…: «Un giovanetto però lo seguiva, rivestito soltanto di un lenzuolo, e lo fermarono. Ma egli, lasciato il lenzuolo, fuggì via nudo.» (Mc 14, 51-52).

Quel ragazzo era Marco, figlio della vedova benestante Maria, che metteva a disposizione del Maestro la sua casa in Gerusalemme e l’annesso orto degli ulivi.
Nella grande sala della loro casa, fu consumata l’Ultima Cena e lì si radunavano gli apostoli dopo la Passione e fino alla Pentecoste. Quello che è certo è che fu uno dei primi battezzati da Pietro, che frequentava assiduamente la sua casa e infatti Pietro lo chiamava in senso spirituale “mio figlio” come si legge nella sua prima lettera (5,13) : « Vi saluta la comunità che è stata eletta come voi e dimora in Babilonia; e anche Marco, mio figlio. »

Nel 44 quando Paolo e Barnaba, parente del giovane, ritornarono a Gerusalemme da Antiochia, dove erano stati mandati dagli Apostoli, furono ospiti in quella casa; Marco, il cui vero nome era Giovanni, usato per i suoi connazionali ebrei, mentre il nome Marco lo era per presentarsi nel mondo greco-romano, ascoltava i racconti di Paolo e Barnaba sulla diffusione del Vangelo ad Antiochia e quando questi vollero ritornarci, li accompagnò.
Fu con loro nel primo viaggio apostolico fino a Cipro, ma quando questi decisero di raggiungere Antiochia, attraverso una regione inospitale e paludosa sulle montagne del Tauro, Marco rinunciò spaventato dalle difficoltà: « Salpati da Pafo, Paolo e i suoi compagni giunsero a Perge di Panfilia. Giovanni si separò da loro e ritornò a Gerusalemme.» (Atti 13,13).
Cinque anni dopo, nel 49, Paolo e Barnaba ritornarono a Gerusalemme per difendere i Gentili convertiti, ai quali i giudei cristiani volevano imporre la legge mosaica, per poter ricevere il battesimo. Ancora ospitati dalla vedova Maria, rividero Marco che volle seguirli di nuovo ad Antiochia. Quando i due prepararono un nuovo viaggio apostolico, Paolo, non fidandosi, non lo volle con sé ; scelse un altro discepolo, Sila, e si recò in Asia Minore, mentre Barnaba si spostò a Cipro con Marco.

In seguito il giovane deve aver conquistato la fiducia degli apostoli, perché nel 60, nella sua prima lettera da Roma, Pietro, salutando i cristiani dell’Asia Minore, invia anche i saluti di Marco; egli divenne anche fedele collaboratore di Paolo e non esitò di seguirlo a Roma, dove nel 61 risulta che Paolo era prigioniero in attesa di giudizio. L’apostolo parlò di lui ai Colossesi: « Vi salutano Aristarco, mio compagno di carcere, e Marco, il cugino di Barnaba, riguardo al quale avete ricevuto istruzioni - se verrà da voi, fategli buona accoglienza - » (Col 4,10) e a Timoteo : « Affrettati a venire da me al più presto... Solo Luca è con me. Prendi Marco e conducilo con te, perché mi è utile per il ministero. » (2 Tm 4,9-11)

Forse Marco giunse in tempo per assistere al martirio di Paolo, ma certamente rimase nella capitale dei Cesari, al servizio di Pietro, anch’egli presente a Roma. Durante gli anni trascorsi accanto al Principe degli Apostoli, Marco trascrisse, secondo la tradizione, la narrazione evangelica di Pietro.
Affermatasi solidamente la comunità cristiana di Roma, Pietro inviò, in un primo momento, il suo discepolo e segretario ad evangelizzare l’Italia settentrionale. Ad Aquileia Marco convertì Ermagora, diventato poi primo vescovo della città e, dopo averlo lasciato, s’imbarcò e fu sorpreso da una tempesta, approdando sulle isole Rialtine (primo nucleo della futura Venezia), dove si addormentò e sognò un angelo che lo salutò: « Pax tibi Marce evangelista meus » e gli promise che in quelle isole avrebbe dormito in attesa dell’ultimo giorno.

Secondo un’antichissima tradizione, Pietro lo mandò poi ad evangelizzare Alessandria d’Egitto; qui Marco fondò la Chiesa locale diventandone il primo vescovo.
Nella zona di Alessandria, subì il martirio sotto l’imperatore Traiano (53-117); fu torturato, legato con funi e trascinato per le vie del villaggio di Bucoli, luogo pieno di rocce e asperità; lacerato dalle pietre, il suo corpo era tutta una ferita sanguinante.
Dopo una notte in carcere, dove venne confortato da un angelo, Marco fu trascinato di nuovo per le strade, finché morì un 25 aprile verso l’anno 72, secondo gli “Atti di Marco” all’età di 57 anni. Ebrei e pagani volevano bruciarne il corpo ma un violento uragano li fece disperdere, permettendo così, ad alcuni cristiani, di recuperare il corpo e seppellirlo a Bucoli in una grotta; da lì nel V secolo fu traslato nella zona del Canopo.

La chiesa costruita al Canopo di Alessandria, che custodiva le sue reliquie, fu incendiata nel 644 dagli arabi e ricostruita in seguito dai patriarchi di Alessandria, Agatone (662-680), e Giovanni di Samanhud (680-689).
In questo luogo, nell’828, approdarono i due mercanti veneziani, Buono da Malamocco e Rustico da Torcello, che s’impadronirono delle reliquie dell’Evangelista, minacciate dagli arabi, trasferendole a Venezia, dove giunsero il 31 gennaio 828, superando il controllo degli arabi, una tempesta e l’arenarsi su una secca.
Le reliquie furono accolte con grande onore dal doge Giustiniano Partecipazio, figlio e successore del primo doge delle Isole di Rialto, Agnello; e riposte provvisoriamente in una piccola cappella, luogo oggi identificato dove si trova il tesoro di San Marco.

Iniziò la costruzione di una basilica, che fu portata a termine nell’832 dal fratello Giovanni suo successore, ma questa andò distrutta da un incendio nel 976, provocato dal popolo in rivolta contro il doge Candiano IV (959-976) che lì si era rifugiato insieme al figlio; in quell’occasione fu distrutto anche il vicino Palazzo Ducale.
Nel 976-978, il doge Pietro Orseolo I il Santo, ristrutturò a sue spese sia il Palazzo che la Basilica. L’attuale “Terza San Marco” fu iniziata invece nel 1063, per volontà del doge Domenico I Contarini, e completata nei mosaici e marmi dal suo successore, Domenico Selvo (1071-1084). La cerimonia della dedicazione e consacrazione della Basilica, avvenuta il 25 aprile 1094, fu preceduta da un triduo di penitenza, digiuno e preghiere, per ottenere il ritrovamento delle reliquie dell’Evangelista, delle quali non si conosceva più l’ubicazione.
Dopo la Messa, celebrata dal vescovo, si spezzò il marmo di rivestimento di un pilastro della navata destra, a lato dell’ambone e comparve la cassetta contenente le reliquie, mentre un profumo dolcissimo si spargeva per la Basilica. Venezia restò indissolubilmente legata al suo Santo patrono, il cui simbolo di evangelista, il leone alato che artiglia un libro con la già citata scritta: « Pax tibi Marce evangelista meus », divenne lo stemma della Serenissima.

Il Vangelo scritto da Marco va posto cronologicamente tra quello di S. Matteo (scritto verso il 40) e quello di S. Luca (scritto verso il 62); esso fu scritto tra il 50 e il 60, nel periodo in cui Marco si trovava a Roma accanto a Pietro.
Il racconto evangelico di Marco, il più breve dei quattro, è formato di soli sedici capitoli in lingua greca, ed è diviso in due parti. La prima è data dai primi otto capitoli, nei quali riporta le azioni di Gesù, insistendo sul racconto di numerosi miracoli al fine di dimostrare che Gesù è davvero il Figlio di Dio. Sembra che per questo motivo, fin dall'antichità cristiana, sia stato scelto il leone quale suo simbolo perché come il leone con il suo ruggito domina le voci degli altri animali, così Marco proclama forte che Gesù è Figlio di Dio.
Nella seconda parte di preferenza sono presentate le parole di Gesù, che spiegano le condizioni necessarie per seguire il Redentore sino alla morte in croce.

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Io sono il buon pastore

Basilio di Seleucia ( ?-circa 468), vescovo
Discorsi, 26, 2 ; PG 85, 299-308

Abele, il primo pastore provocò l'ammirazione del Signore che accolse volentieri il suo sacrificio e gradì il donatore più ancora del dono che egli gli stava facendo (Gen 4, 4). La Scrittura approva anche Giacobbe, pastore dei greggi di Laban, notando quanto egli si era preso cura di essi : « Di giorno mi divorava il caldo e di notte il gelo » (Gen 31, 40). E Dio ricompensò quell'uomo del suo lavoro. Anche Mosè fu pastore, sui monti di Madian, preferendo essere maltrattato con il popolo di Dio, piuttosto che conoscere i piaceri [nel palazzo di Faraone]. Dio, ammirando questa sua scelta, si lasciò vedere da lui, in compenso (Es 3, 2). E dopo la visione, Mosè non abbandona la sua responsabilità di pastore, ma con il suo bastone, comanda agli elementi (Es 14, 16) e pasce il popolo d'Israele. Anche Davide fu pastore, ma il suo bastone diventò scettro regale ed egli ricevette la corona. Non stupirti che tutti questi buoni pastori siano così vicini a Dio. Il Signore stesso non si vergogna di essere chiamato « pastore » (Sal 22 ; 79). Dio non si vergogna di pascere gli uomini, e nemmeno di averli creati.

Ma guardiamo ora il nostro pastore, Cristo ; guardiamo il suo amore per gli uomini e la sua mansuetudine nel condurli ai pascoli. Gioisce delle pecore che lo circondano e cerca quelle che si smarriscono. Né monti, né foreste gli sono di ostacolo ; corre nella valle dell'ombra per giungere al luogo dove si trova la pecora smarrita... Fu visto negli inferi per dare il segnale del ritorno ; per questa via si prepara a stringere amicizia con le pecore. Ora, ama Cristo chi accoglie con attenzione le sue parole.
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sabato 24 aprile 2010

Servitore di tutti gli uomini

Quando si vive davvero la carità, non rimane tempo per cercare sé stessi; non c'è spazio per la superbia; non avremo in mente altro che occasioni di servire! (Forgia, 683)

Pensate un po, alle caratteristiche di un somaro, ora che ne restano così pochi. Non pensate all'animale vecchio e cocciuto, che sfoga i suoi rancori tirando calci a tradimento, ma all'asinello giovane, dalle orecchie tese come antenne, austero nel cibo, tenace nel lavoro, che trotta lieto e sicuro. Vi sono centinaia di animali più belli, più abili, più crudeli.
Ma Cristo, per presentarsi come re al popolo che lo acclamava, ha scelto lui. Perché Gesù non sa che farsene dell'astuzia calcolatrice, della crudeltà dei cuori aridi, della bellezza appariscente ma vuota.
Il Signore apprezza la gioia di un cuore giovane, il passo semplice, la voce non manierata, gli occhi limpidi, l'orecchio attento alla sua parola d'amore. Così regna nell'anima.
Se lasciamo che Cristo regni nella nostra anima, non saremo mai dei dominatori, ma servitori di tutti gli uomini. Servizio: come mi piace questa parola! Servire il mio Re e, per Lui, tutti coloro che sono stati redenti dal suo sangue. (E' Gesù che passa, nn. 181-182)
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San Fedele da Sigmaringen

Sacerdote O.F.M. e martire

Fedele, al secolo Markus Roy, nasce a Sigmaringen (D) il 1° ottobre 1577. Studia presso il collegio gesuita di Friburgo in Brisgovia (D) dove nel 1601 si laurea in filosofia.

Negli anni 1601-1604 frequenta l'università di Friburgo; nel 1604 accompagna un gruppo di studenti in Italia.
Il 7 maggio 1611 ottiene brillantemente la laurea in diritto civile ed ecclesiastico.
Nel mese di settembre 1612 viene ordinato sacerdote.
Il 4 ottobre 1612 entra tra i cappuccini e inizia il noviziato nel convento di Friburgo.
Il 4 ottobre 1613 professione religiosa col nome Fedele.
Dal 1614 al 1618 studia teologia a Friburgo, a Fraunfeld e Costanza.

È guardiano del convento a Rheinfelden nel 1618-1619; superiore a Feldkirch nel 1619-1620; guardiano a Freiburg nel 1620-1621 e ancora a Feldkirch nel 1621-1622 dove assiste i soldati e i colpiti dalla peste.

Dalla Congregazione di Propaganda Fide (appena istituita) ebbe l'incarico di recarsi nella Rezia, in piena crisi protestante. Le conversioni furono numerose, ma l'intolleranza di molti finì per creare attorno al santo predicatore una vera ondata di ostilità, soprattutto da parte dei contadini calvinisti del cantone svizzero dei Grigioni, scesi in guerra contro l'imperatore d'Austria. Più che scontata quindi l'accusa mossa a fra Fedele d'essere un agente al servizio dell'imperatore cattolico. “ ”

Il santo frate continuava impavido la sua missione, recandosi di città in città a tenere corsi di predicazione. “ Se mi uccidono - disse ai confratelli, partendo per Seewis im Prättigau (cantone Grigioni) - accetterò con gioia la morte per amore di Nostro Signore. La riterrò una grande grazia ”.
Era poco meno d'una profezia. A Seewis, durante la predica, si udì qualche sparo. Fra Fedele portò ugualmente a termine la predica e poi si riavviò verso casa. All'improvviso gli si fecero attorno una ventina di soldati, capeggiati da un ministro, che in seguito si sarebbe convertito. Gli intimarono di rinnegare quanto aveva predicato poco prima. “ Non posso, è la fede dei vostri avi. Darei volentieri la mia vita perché voi tornaste a questa fede ”.
Colpito pesantemente al capo, ebbe appena il tempo di pronunciare parole di perdono, prima di essere abbattuto a colpi di spada. Era il 24 aprile 1622.

Fra Fedele da Sigmaringen fu beatificato da Pp Benedetto XIII (Pietro Francesco Orsini) il 24 marzo 1729 e proclamato santo da Pp Benedetto XIV (Prospero Lorenzo Lambertini) il 29 giugno 1746.

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Le parole che vi ho dette sono spirito e vita

San Girolamo (347-420), sacerdote, traduttore della Bibbia, dottore della Chiesa
Lettera 53 a Paolino

Leggiamo le Sante Scritture : secondo me, il Vangelo è il corpo di Gesù, le Sante Scritture sono la sua dottrina. Certamente, la parola « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue » trova tutta la sua attuazione nel mistero eucaristico ; ma il vero corpo di Cristo e il suo vero sangue sono anche la parola delle Scritture, la dottrina divina. Quando ci avviciniamo ai santi misteri, se un frammento viene a cadere per terra, siamo inquieti. Quando ascoltiamo la parola di Dio, se pensiamo a qualcos'altro mentre essa entra nei nostri orecchi, quanta responsabilità ne abbiamo !

La carne del Signore essendo vero cibo e il suo sangue vera bevanda, il nostro unico bene è mangiare la sua carne e bere il suo sangue, non soltanto nel mistero eucaristico, ma anche nella lettura della Scrittura.
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venerdì 23 aprile 2010

Vieni Signore Gesù, e donaci la tua pace!

Venga il tuo regno, o Gesù, e da un capo all’altro del mondo rifulga la tua gloria! Ti chiamiamo con tutte le forze dell’anima, perché siamo stanchi di questo mondo scellerato che non conosce più limiti nei suoi delitti. Vieni!
Su questa immane tempesta! Tu solo puoi levarti e imporre la pace, la tua pace, perché qualunque altra pace è solo un armistizio di guerra. Vieni!
La Chiesa la tua sposa, ti chiama a gran voce nella sua preghiera liturgica, e Tu non puoi non ascoltarla. Chiama le pecorelle smarrite nell’unico tuo ovile, prendi nelle tue mani il vincastro amoroso, guidale ai pascoli sempre ubertosi e sempre freschi nella tua Chiesa! Vieni!
Prepara la tua Mensa eucaristica alle anime affamate, e manda i tuoi angeli e i tuoi servi fedeli a forzare le anime restie: Compelle entrare, spingile ad entrare. Vieni! Donaci il latte del tuo amore, affinché siamo saziati di te, e ti seguiamo fino ai pascoli eterni!
Vieni da grande trionfatore, trionfando nel tuo dolcissimo amore, e la terra, esilio penoso, si muterà in un’oasi di pace! O Re divino che ascendesti sui cieli nel trionfo della tua vittoria, vieni a liberarci dalla confusione delle apostasie che credono di avanzare trionfanti; arrestale con mano potente, stritola i loro idoli, rovescia i loro altari, spegni i loro fuochi, dissipa le loro infami libagioni; avanzati, procedi, regna Tu solo, o Re della gloria.
Amen!

Don Dolindo Ruotolo
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Se sarete bambini non avrete dispiaceri

Se sarete bambini non avrete dispiaceri: i bambini dimenticano subito i loro guai per tornare ai giochi abituali. —Pertanto, abbandonandovi, non avrete di che preoccuparvi, giacché riposerete nel Padre. (Cammino, 864)

All'inizio degli anni quaranta, mi recavo spesso a Valenza. Non avevo alcun mezzo umano, e con coloro che — come ora voi — si riunivano col povero sacerdote che vi parla, facevo orazione ovunque si potesse, qualche sera sulla spiaggia deserta. Come i primi amici del Maestro, ricordi? San Luca scrive che, alla partenza da Tiro, diretti con Paolo a Gerusalemme, tutti ci accompagnarono con le mogli e i figli sin fuori dalla città, e inginocchiati sulla spiaggia pregammo [Cfr. At 21,5.].
Un giorno, a sera inoltrata, durante un meraviglioso tramonto valenziano, vedemmo avvicinarsi una barca alla riva: ne balzarono fuori degli uomini bruni, forti come rocce, bagnati, a torso nudo, bruciati dal vento da sembrare di bronzo. Incominciarono a tirar fuori dall'acqua la rete tesa in mare dalla barca per la pesca a strascico: era piena di pesci lucenti, d'argento. Tiravano vivacemente, affondando i piedi nella sabbia, con sorprendente energia. D'improvviso sopraggiunse un bimbo, anche lui abbronzato: si avvicinò alla corda, l'afferrò con le sue manine e incominciò a tirare con evidente imperizia. Quei pescatori rudi, per nulla raffinati, certamente si sentirono intenerire il cuore, e consentirono al bambino di collaborare; non lo allontanarono, anche se più che altro era d'intralcio.
Pensai a voi e a me; a voi, che ancora non conoscevo, e a me; a questo nostro tirare le reti tutti i giorni, in tanti aspetti. Se ci presentiamo davanti a Dio nostro Signore come quel bambino, convinti della nostra debolezza, ma disposti ad assecondare i Suoi progetti, raggiungeremo la meta più facilmente: porteremo a riva la rete, piena di frutti abbondanti, perché dove le nostre forze vengono meno, interviene la potenza di Dio.(Amici di Dio, 14)
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San Giorgio

Martire

Nella vastissima galleria dei santi e della santità cristiana (nelle sue componenti occidentale e orientale) ci imbattiamo in tanti personaggi, uomini e donne, che possiamo definire originali oppure “strani”, perché possono destare in noi, discepoli e discepole di Cristo del III Millennio, ammirazione per le loro grandi azioni, invidia per la loro vita santa, desiderio di imitazione nel nostro quotidianamente faticoso cammino spirituale.
Tutto questo sì, ma non solo. Può sorgere in noi anche qualche perplessità per certi loro aspetti di santità che consideriamo non “moderni” (e nemmeno post moderni) o comunque non esaltanti per la nostra sensibilità.
Ci può anche essere, davanti a certe narrazioni agiografiche oltre il limite del buon senso, un certo fastidio e talvolta una qualche forma di repulsione. Dobbiamo allora condannare tutto alla rottamazione? Penso di no. O viceversa, accettare tutto? Nemmeno. L’invito è quello di restare liberi e criticamente vigili, sempre. Perché la nostra fede cristiana non si basa su queste narrazioni che talvolta sono leggendarie o che contengono elementi spuri o fantasiosi, ma su Gesù Cristo, storicamente esistito, come viene descritto nei Vangeli, studiati, soppesati anche nelle virgole, criticati, vagliati, confrontati incessantemente e sempre, oggi come nei secoli passati.

Il fin qui detto è per inquadrare il santo odierno : S. Giorgio, martire. Popolarissimo e famosissimo per quanto riguarda il culto ma poverissimo di riscontri e fondamenti storici.
Sono milioni le persone che, nelle varie lingue, ne portano il nome (anche nella versione femminile Giorgia o Giorgina), sono tantissime le chiese a lui dedicate, innumerevoli le persone che lo invocano o che comunque lo annoverano come patrono: come, per esempio, i militari, i fabbricanti di armi, i cavalieri, gli schermidori, gli alabardieri, i Giovani Esploratori, gli Scout, i contadini.
Può essere invocato inoltre dagli ammalati di lebbra, di peste o di malattie veneree. Anche se non è molto studiato nella agiografia in compenso è presentissimo nelle varie forme dell’arte: pittura, scultura etc..
Sotto questo aspetto S. Giorgio (con l’episodio del drago, caratterizzante la sua figura e fama) è una vera “super star”, ha cioè pochi eguali, escludendo naturalmente il Cristo, Maria di Nazaret e i principali Apostoli.

Ma c’è anche da ricordare un ruolo politico e militare di S. Giorgio. Nella Legenda Aurea si narra anche che i crociati nel 1099, giunti davanti a Gerusalemme, “ebbero una visione di San Giorgio vestito di una bianca armatura, che impugnava una croce rossa e faceva loro cenno perché lo seguissero e conquistassero la città. Essi allora si fecero coraggio, presero la città e sconfissero i saraceni” musulmani.
Il nostro santo poi è stato preso come patrono non solo dai Crociati, ma anche dopo di loro, dagli eserciti schierati in difesa dell’ortodossia cattolica. Carlo V infatti, nel secolo XVI, lanciò il suo esercito contro i principi protestanti riuniti contro di lui al grido: “Saint George for England”.
In Italia è patrono di più di 100 comuni di cui ben ventuno portano il suo nome. È anche protettore di varie nazioni come l’Inghilterra, il Portogallo, la Svezia, l’Ungheria, la Grecia, la Catalogna, la Georgia (che porta anche il suo nome).
Il suo culto si diffuse anche in Russia e in Etiopia. In Inghilterra poi furono fondati anche i Cavalieri dell’Ordine della Giarrettiera: questo viene considerato il primo ordine nobiliare laico che si autodefinì “Ordine aristocratico di San Giorgio”.
Come se non bastasse tutto questo, S. Giorgio fu uno dei Quattordici Santi Ausiliatori o Protettori, che, dal XVI secolo, si ritennero avessero poteri di intercessione di speciale efficacia.

Da ultimo, un particolare non trascurabile ai nostri giorni: Giorgio è un santo così famoso e potente che gli è stato riservato anche un posto nell’agiografia islamica, dove addirittura gli viene conferito il titolo onorevole di “profeta”. Come si vede un santo non solo transnazionale ma anche transreligioso.

Pochi santi possono vantare un curriculum vitae così vario, articolato, lungo e impegnativo. Ma, ahimè, nonostante tutto questo, proprio per l’assenza di fondamenti storici sicuri (nella qualità) e sufficienti (nella quantità), la Sacra Congregazione dei Riti, nel 1960, declassò impietosamente la festa di S. Giorgio a semplice memoria liturgica, a carattere solo... locale, da ricordare cioè solo nelle chiese particolari. Una retrocessione, certo, ma non una cancellazione. Prova questa che gli elementi che si hanno sulla sua figura sono pochi ma sufficienti.

L’episodio dell’uccisione del drago viene considerato da Jean Darche nella sua grande Vita di S. Giorgio come provato storicamente, mentre in genere si parla di pura leggenda (ma con un grande valore simbolico). “Storia o leggenda, l’episodio del dragone caratterizza in ogni caso San Giorgio. Significhi la vittoria riportata sul drago con la liberazione della fanciulla, oppure la vittoria riportata sull’idolatria e la liberazione dell’anima, è sempre una vittoria sul nemico con l’annientamento del forte e la liberazione del debole. Indica il carattere di San Giorgio e l’impressione lasciata sulla terra che ha attraversato” (E. Hello).

Da un punto di vista storico sembra che si possa affermare soltanto che Giorgio fu un soldato o un ufficiale dell’esercito romano, proveniente dalla Cappadocia, e che fu convertito al cristianesimo dalla madre. Affrontò con fermezza il martirio (verso il 303, poco prima, quindi, dell’Editto di Costantino del 313 che dava libertà al Cristianesimo), sotto l’imperatore romano Diocleziano a Lidda, (l’attuale Lod, presso Tel Aviv, in Israele) per avere invocato giustizia per i Cristiani perseguitati e perché lui stesso si era coraggiosamente dichiarato seguace della stessa fede.
Nei racconti della morte di S. Giorgio (chiamate Passioni) si narrano innumerevoli e orripilanti supplizi cui fu sottoposto per ben sette anni, finché cioè i suoi torturatori, stanchi, decisero di... tagliargli la testa, e chiudere così la pratica del martirio.
Ad essi venne aggiunto l’episodio dell’uccisione del drago. Questo racconto comparve, sia in Oriente sia in Occidente, nel secolo XI, e venne incluso verso il 1260, nella Legenda Aurea di Jacopo da Varagine (1230-1298), fatto questo che gli diede popolarità dovunque.

Significato del nome Giorgio : “agricoltore” (greco)
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Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna

San [Padre] Pio di Pietrelcina (1887-1968), cappuccino
Lettere di Padre Pio, Vicenza 1969, p.55

– Padre, quanto indegno di fare la comunione mi sento ! Ne sono veramente indegno !
Risposta : – È vero. Non siamo degni di un tale dono ; ma una cosa è prenderne parte indegnamente in stato di peccato, tutt'altra cosa è non esserne degni. Tutti ne siamo indegni ; ma è Gesù ad invitarci, è lui a desiderarlo. Siamo dunque umili e riceviamolo col cuore pieno di amore.


– Padre, perché piange quando si comunica ?
Risposta : – Se la Chiesa ha lanciato questo grido : « Egli non disdegnò il seno della Vergine », parlando dell'incarnazione del Verbo nel seno dell'Immacolata, cosa dire di noi che siamo peccatori ? Ma Cristo ha detto : « Se non mangiate la mia carne e non bevete il mio sangue, non avrete in voi la vita ». Per cui, avviciniamo alla mensa della comunione con molto amore e grande rispetto. Che tutta la giornata serva, dapprima a prepararci ad essa, poi a rendere grazie.
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giovedì 22 aprile 2010

Beato Francesco Venimbeni

detto anche Francesco da Fabriano
Sacerdote O.F.M.

Francesco nacque a Fabriano nel 1251, da Compagno Venimbeni, medico, e Margherita di Federico; un’agiata famiglia, dove era già penetrata la devozione per san Francesco.
La Madre emise per lui un voto, forse prima del parto, e quando il bambino fu in grado di accompagnarla si recò a scioglierlo in Assisi sulla tomba del Santo; in questa occasione conobbe “frate Angelo”, uno degli autori che figurano nella Leggenda dei Tre Compagni (è la più importante delle biografie non ufficiali di Francesco, cioè delle Vite del Santo non scritte su commissione e dietro controllo papale o della classe dirigente dell'Ordine francescano), il quale, avvicinandosi al fanciullo e osservandolo negli occhi disse: “Questo sarà dei nostri”.

Il Venimbeni, che racconta l’episodio nella sua cronaca , “Ego frater Franciscus”, di cui si sono ritrovati quasi tutti i frammenti, confessa candidamente che da allora la madre prese a ripetergli che “anche lui doveva essere dell’ordine del S. Francesco e non rimanere nel mondo”.

Difatti, Francesco, dopo aver compiuto gli studi di filosofia, all'età di 16 anni, entrò nell'Ordine Francescano. Mentre era novizio a Fabriano, ebbe il permesso di recarsi ad Assisi per lucrarvi l'indulgenza della Porziuncola. Qui incontrò frate Leone, uno dei primi compagni di San Francesco, e ne lesse gli "scritti".

Per ben due volte, nel 1316 e nel 1318-21, fu superiore del nuovo convento costruito dai confratelli a Fabriano. L'eredità paterna gli permise di costruire una biblioteca dove raccolse una copiosa quantità di manoscritti e, in seguito a ciò, divenne il primo fondatore delle biblioteche in seno all'Ordine Francescano.

Tutta la sua vita fu devoluta all'attenzione verso i poveri, gli emarginati e gli ammalati. Egli stesso si prendeva cura dei bisognosi a cui forniva il sostegno materiale e spirituale. Infaticabile era il suo zelo per le anime: trascorreva molte ore in confessionale o nell'annunzio della parola di Dio. Vestiva una rozza tunica, si flagellava con aspre discipline, dormiva poco per dedicare più tempo possibile alla preghiera. Argomento della sua contemplazione erano i misteri della Passione di Cristo, che lo commuovevano fino al pianto. Celebrava la santa Messa con fervore ed era devotissimo delle anime del Purgatorio.

Morì, come aveva previsto, il 22 aprile 1322, all'età di 61 anni; il suo culto fu riconosciuto da Pio VI (Giovanni Angelo Braschi) il 1 aprile 1775.

Significato del nome Francesco : “uomo libero” (antico tedesco)

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Questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia

San Pier Damiani (1007-1072), eremita poi vescovo, dottore della Chiesa
Discorsi, 45 ; PL 144,743 et 747

La Vergine Maria ha dato alla luce Gesù Cristo, l'ha riscaldato nelle sue braccia, l'ha avvolto in fasce e l'ha circondato di cure materne. È proprio lo stesso Gesù di cui riceviamo ora il corpo e beviamo il sangue redentore nel sacramento dell'altare. Questo ritiene vero la fede cattolica, questo insegna fedelmente la Chiesa.

Nessuna lingua umana potrà mai glorificare abbastanza colei dalla quale ha preso carne, lo sappiamo, « il mediatore fra Dio e gli uomini » (1 Tm 2,5). Nessun omaggio umano è all'altezza di colei il cui grembo purissimo ha dato il frutto che è il cibo delle nostre anime : colui, in altri termini, che rende testimonianza a se stesso con le parole : « Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno ». Infatti, noi che eravamo stati cacciati dal paradiso di delizie a causa di un cibo, per mezzo di un cibo ritroviamo le gioie del paradiso. Eva ha preso un cibo, e siamo stati condannati a un digiuno eterno ; Maria ha dato un cibo, e la porta del banchetto del cielo ci è stata aperta.
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mercoledì 21 aprile 2010

Sereno davanti alle preoccupazioni

Se avendo fissato lo sguardo in Dio sai mantenerti sereno davanti alle preoccupazioni, se impari a dimenticare le piccolezze, i rancori e le invidie, ti risparmierai la perdita di molte energie, di cui hai bisogno per lavorare con efficacia, al servizio degli uomini. (Solco, 856)

Lotta contro le asprezze del tuo carattere, contro il tuo egoismo, contro la tua comodità, contro le tue antipatie...
Oltre al fatto che dobbiamo essere corredentori, il premio che riceverai pensaci bene sarà in strettissima relazione con la semina che avrai fatto. (Solco, 863)

Compito del cristiano: annegare il male nella sovrabbondanza del bene. Non si tratta di far campagne negative, né di essere antiqualcosa. Al contrario: si tratta di vivere di affermazioni, pieni di ottimismo, con gioventù, allegria e pace; di guardare tutti con comprensione: quelli che seguono Cristo e quelli che lo abbandonano o non lo conoscono.
Ma comprensione non significa astensionismo, né indifferenza, bensì azione.(Solco, 864)

Paradosso: da quando mi sono deciso a seguire il consiglio del Salmo: «Getta sul Signore il tuo affanno, ed Egli ti darà sostegno», di giorno in giorno ho meno preoccupazioni per la testa...
E al tempo stesso, con il lavoro opportuno, si risolve ogni cosa con più chiarezza!
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