venerdì 31 ottobre 2014

Commento al Vangelo del 30-10-2014

Dal Vangelo secondo Luca (13,31-35)
In quel giorno, si avvicinarono a Gesù alcuni farisei a dirgli: “Parti e vattene via di qui, perché Erode ti vuole uccidere”. Egli rispose: “Andate a dire a quella volpe: Ecco, io scaccio i demoni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno avrò finito. Però è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io vada per la mia strada, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme. Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che sono mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina la sua covata sotto le ali e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa sta per esservi lasciata deserta! Vi dico infatti che non mi vedrete più fino al tempo in cui direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!”. 

COMMENTO AL VANGELO - P. LINO PEDRON 
Probabilmente Erode si serve dei farisei per impaurire Gesù e allontanarlo dal suo territorio. E' meglio che questa persona scomoda si trasferisca nella zona di competenza del suo nemico, Pilato. Questi, a sua volta, glielo invierà e gli restituirà il favore. In tale scambio diverranno amici (Lc 23,6-12). La volpe è un'animale immondo. Con questo titolo Gesù bolla l'immoralità di Erode. Gesù lo tranquillizza, illustrandogli la propria attività. Non entra in concorrenza con lui. Non gli insidia il trono. Il suo potere è quello di servire l'uomo liberandolo dal male interno (demoni) ed esterno (malattie). 
Questa è l'attività di Gesù compiuta in pieno giorno. L'attività di Gesù è compiuta nell'"oggi" della sua vita terrena. La sua vita volge al tramonto: darà pensieri ad Erode ancora per poco tempo. Il terzo giorno è quello definitivo della risurrezione. Il viaggio di Gesù non è mosso dalla paura di Erode, ma dalla volontà del Padre che lo vuole a Gerusalemme dove si compirà il mistero della salvezza. La triplice ripetizione del nome di Gerusalemme è l'espressione di un amore e di una tenerezza infiniti. Gesù non piange sulla propria sorte, ma sulla sua città (Lc 19,41; 23,28 ss).Gli reca più dolore il male dell'amata che non la propria uccisione che avviene per mano dell'amata. 
E' la manifestazione suprema del suo amore. E' l'amore dello Sposo che piange il male della sposa che l'uccide. E' importante la rivelazione anticipata di questo amore che, pur prevedendo il peggio, si offre senza condizioni. La vista di un Dio che ci ama fino a morire per noi sarà l'offerta estrema d'amore che rende possibile la conversione (Lc 23,48; Gv 12,32). 
L'immagine che Gesù dà di sé, paragonandosi a una chioccia, è la più umile e la più bella di tutte. Richiama le parole di Dio del Sal 91,4: "Ti coprirà con le sue penne, sotto le sue ali troverai rifugio". Esprime la forza della sua tenerezza: l'aquila potente che salva (Dt 32,11) qui si fa' chioccia. 
L'amore materno di Dio è tanto forte da renderlo debole, tanto sapiente da renderlo stolto, fino a dare la vita per noi: "Egli infatti fu crocifisso per la sua debolezza" (2Cor 13,4). 
L'ultima frase di questo capitolo lascia ancora aperta la possibilità al ravvedimento. Queste parole si riferiscono all'ingresso di Gesù in Gerusalemme (Lc 19,38), ma soprattutto all'ultimo ritorno di Cristo alla fine dei tempi. Anche i giudei saluteranno questo ritorno, perché allora saranno convertiti (Rm 11,25-31).
----

martedì 28 ottobre 2014

Manda il Tuo Spirito

Signore Gesù, manda il tuo Spirito, perché mi aiuti a leggere la Scrittura con lo stesso sguardo, con il quale l' hai letta Tu per i discepoli sulla strada di Emmaus. 
Con la luce della Parola, scritta nella Bibbia, Tu li aiutasti a scoprire la presenza di Dio negli avvenimenti sconvolgenti della tua condanna e della tua morte. Così, la croce che sembrava essere la fine di ogni speranza, è apparsa loro come sorgente di vita e di risurrezione. 
Crea in me il silenzio perché possa ascoltare la Tua voce nella creazione e nella Scrittura, negli avvenimenti e nelle persone, soprattutto nei poveri e sofferenti. La Tua Parola mi orienti, affinché anch'io, come i due discepoli di Emmaus, possa sperimentare la forza della Tua risurrezione e testimoniare agli altri che Tu sei vivo in mezzo a noi come fonte di fraternità, di giustizia e di pace. 
Questo noi chiediamo a Te, Gesù, figlio di Maria, che ci riveli il Padre e mandi lo Spirito Santo. 
Amen.
Maria M.
---

Richiesta di preghiere 28/10/2014

Per favore, se potete, dite una preghiera per me, mi hanno trovato un tumore in stato avanzato. grazie 
Lara
----------

Commento al Vangelo del 28-10-2014

+ Dal Vangelo secondo Luca (6,12-19)
In quei giorni, Gesù se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli: Simone, al quale diede anche il nome di Pietro; Andrea, suo fratello; Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso; Giacomo, figlio di Alfeo; Simone, detto Zelota; Giuda, figlio di Giacomo; e Giuda Iscariota, che divenne il traditore. Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidòne, che erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti impuri venivano guariti. Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da Lui usciva una forza che guariva tutti. 

COMMENTO AL VANGELO - P. LINO PEDRON 
Gesù ha compiuto la sua prima manifestazione, ha avuto il suo primo incontro con il popolo e le autorità religiose del paese; ora ha bisogno di una lunga notte di riflessione, di preghiera e di contatto con il Padre. L'opera che ha avviato è destinata a sopravvivere nel tempo, per questo egli deve scegliere degli uomini che condividano la sua causa e la portino avanti nei secoli. 
Secondo il vangelo di Luca, la Chiesa e la sua organizzazione essenziale provengono direttamente da Cristo. Gesù sale sul monte per trovare nell'incontro con il Padre la chiarezza necessaria per scegliere i dodici apostoli. Il numero dodici richiama quello dei patriarchi dell'Antico Testamento. Si delinea così la nascita del nuovo popolo di Dio. 
La preghiera sta all'origine di ogni scelta e azione apostolica di Gesù e della Chiesa. Il giorno della Chiesa spunta dalla notte di Gesù passata in comunione col Padre. Ciò non vuole assolutamente dire che le scelte che il Padre e il Figlio fanno, chiamando i dodici e gli altri dopo di loro lungo i secoli, saranno le migliori secondo la nostra logica umana. 
La struttura portante della Chiesa è zoppicante fin dall'inizio, sempre aperta al tradimento e al rifiuto del Signore. Pietro e Giuda ne sono le figure emblematiche. E tutto questo non è uno spiacevole imprevisto, ma è una realtà che fa parte del progetto di salvezza. Il motivo che spinge la gente verso Gesù è il bisogno di ascoltare la parola di Dio e di essere guarita. Come la parola del serpente portò il male e la morte (cfr Gen 3), così la parola di Dio guarisce dal male e dà la vita. 
C'è infatti una stretta connessione tra l'ascolto della parola di Dio e la guarigione, come tra la disobbedienza alla parola di Dio e la morte (cfr Dt 11,26-32). " Il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte" (Rm 5,12) perché l'uomo ha ascoltato il serpente. L'uomo diventa ciò che ascolta. Se ascolta Dio diventa figlio di Dio, se ascolta il diavolo diventa figlio del diavolo. Come la gente di allora, anche noi possiamo toccare e sperimentare la potenza di Gesù se ascoltiamo la sua parola. 
La parola di Dio infatti "è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede" (Rm 1,16). Infatti "è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione" (1Cor 1,21).
------

lunedì 27 ottobre 2014

Preghiera mattutina-27

24-feb-2014
La vera saggezza è misericordiosa ed è feconda di opere buone. 
Concedici, Signore, il dono della saggezza, affinché anche noi vediamo come vedi tu, pensiamo come pensi tu e soprattutto amiamo come ami tu. 
Allora collaboreremo in modo più efficace all'opera della redenzione. 
Sapremo cosa hai posto nel nostro cuore e, riconoscendo le nostre debolezze, ricorreremo di più a te, Sapienza eterna del Padre, e comprenderemo così che vi sono demoni che si scacciano solo con la preghiera, con un'unione completa con te.
-----

Commento al Vangelo del 27-10-2014

Dal Vangelo secondo Luca (13,10-17)
In quel tempo, Gesù stava insegnando in una sinagoga il giorno di sabato. C'era là una donna che aveva da diciotto anni uno spirito che la teneva inferma; era curva e non poteva drizzarsi in nessun modo. Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse: “Donna, sei libera dalla tua infermità”, e le impose le mani. Subito quella si raddrizzò e glorificava Dio. Ma il capo della sinagoga, sdegnato perché Gesù aveva operato quella guarigione di sabato, rivolgendosi alla folla disse: “Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi curare e non in giorno di sabato”. Il Signore replicò: “Ipocriti, non scioglie forse, di sabato, ciascuno di voi il bue o l'asino dalla mangiatoia, per condurlo ad abbeverarsi? E questa figlia di Abramo, che satana ha tenuto legata diciott'anni, non doveva essere sciolta da questo legame in giorno di sabato?”. Quando egli diceva queste cose, tutti i suoi avversari si vergognavano, mentre la folla intera esultava per tutte le meraviglie da lui compiute. 

COMMENTO AL VANGELO - P. LINO PEDRON 
In questa donna è rappresentata la situazione dell'umanità prima della venuta di Gesù: è sotto il dominio dello spirito maligno, ammalata, rattrappita, tutta piegata verso terra, impossibilitata a rizzarsi e a guardare verso l'alto. Gesù la guarda con compassione, la chiama a sé, le parla, le impone le mani. 
Il capo della sinagoga è uno che non sa riconoscere i segni del tempo della salvezza. La sua interpretazione della legge, il suo testardo attaccamento alla tradizione umana, la mancanza di comprensione per l'amore e la misericordia verso una creatura umana ammalata, non gli danno la capacità di comprendere i segni del tempo della salvezza. La sorte di quest'uomo e di tutti gli avversari di Gesù è la vergogna (v.17) davanti al popolo e al tribunale di Dio. 
Gesù dà un nuovo significato al sabato, o meglio gli ridà il suo significato originale. La legge del sabato è al servizio dell'uomo, e Dio è glorificato da chiunque usi misericordia verso gli uomini. E in questo brano l'uomo riceve nuovamente da Gesù la sua dignità e la sua giusta considerazione: non può essere considerato meno di un bue o di un asino! 
Gesù infrange il dominio di satana che si manifesta nel peccato, nella malattia e nella morte, e libera l'uomo dal peso opprimente della legge. Il sabato diventa il giorno della gioia per tutti. La creazione trova nell'opera salvifica di Gesù la sua perfezione. L'uomo che si apre all'amore di Dio non incontra il giudizio, ma la salvezza e la liberazione definitiva. 
L'infermità, secondo la mentalità dell'uomo della Bibbia, non è solo disfunzione del corpo, ma l'invasione di uno spirito malvagio che logora e arresta il corso delle forze della natura. Gesù stende le mani sull'ammalata: è un atteggiamento con il quale trasfonde su di lei il suo Spirito che scaccia lo spirito del male. Il miracolo non lascia indisturbati i presenti. La donna guarita glorifica Dio perché riconosce nell'opera compiuta da Gesù una manifestazione della sua onnipotenza e della sua bontà. Il capo della sinagoga è indignato e scandalizzato per il trambusto avvenuto nel luogo sacro e soprattutto perché proprio nel luogo dove si celebra il sabato viene trasgredito il comandamento del sabato. L'entusiasmo della folla può avere creato qualche inconveniente. Ma ben vengano, e tutti i giorni, inconvenienti come questo!. 
Per il capo della sinagoga il miracolo è relegato tra le opere servili che non sono consentite in giorno di sabato: "Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi curare e non in giorno di sabato" (v.14). Per rispondere a della gente così ignorante Gesù non ricorre a un'argomentazione teologico-biblica, ma fa un esempio pratico come il condurre all'abbeveratoio l'asino o il bue anche di sabato. L'ostilità dei giudei contro Gesù è dunque preconcetta, infondata, ingiusta. Non sono le opere in sé che irritano il capo della sinagoga e tutta la classe dirigente ebraica, ma la risonanza che esse producono. Gesù guadagna terreno presso il popolo e, di conseguenza, essi lo perdono. E' sempre una questione di potere e di quanto dal potere ne consegue. 
Nella finale del brano appaiono in scena da una parte gli avversari di Gesù e dall'altra la moltitudine della gente. I primi sono irritati e svergognati, la folla invece è entusiasta e convinta. I primi condannano, disapprovano, rigettano l'opera di Gesù; gli altri la esaltano fino a risalire alla sua sorgente, Dio da cui proviene e a cui sale la gloria causata dalle opere di Cristo. Lo stesso fatto suscita indignazione e vergogna, oppure gloria e gioia. La luce di Dio, che rallegra l'occhio buono, offende quello cattivo. Ma anche questo disagio dei cattivi è in vista della loro conversione.
-------------

Commento al Vangelo del 26-10-2014, dom. 30^ t. ord. "A"

Dal Vangelo secondo Matteo (22, 34-40)
In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». Gli rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti». 

COMMENTO AL VANGELO - P. LINO PEDRON 
Questa terza controversia tocca un argomento scottante per il giudaismo. I rabbini ripartivano i 613 precetti della Legge in 365 proibizioni (numero dei giorni dell'anno) e in 248 comandamenti (numero delle componenti del corpo umano). Si trattava di sapere qual era il precetto fondamentale. 
La risposta di Gesù unisce tra loro l'amore di Dio e l'amore del prossimo (Dt 6,5 e Lv 19,18). Tutta la Legge è adempiuta in questi due amori che diventano un solo amore in Gesù, nel quale Dio e l'uomo si uniscono in una sola persona. 
E' nella capacità di tenerli uniti anche nella vita del cristiano che si misura la fede. 
L'unione dell'amore di Dio e dell'amore del prossimo come culmine della Legge è un concetto specificamente cristiano e costituisce la sostanza di questo brano e di tutto il vangelo di Gesù. Occorre però ricordare che Gesù ha ridefinito il concetto di prossimo (cfr Lc 10,30-37). L'amore del prossimo ha come presupposto l'amore di se stessi. Ma l'amore evangelico di se stessi!
----

domenica 26 ottobre 2014

Messaggio di Medjugorje del 25-10-2014

Cari figli! 
Pregate in questo tempo di grazia e chiedete l'intercessione di Tutti i Santi che sono già nella luce. 
Loro vi siano d'esempio e d'esortazione di giorno in giorno, sul cammino della vostra conversione. 
Figlioli, siate coscienti che la vostra vita è breve e passeggera. 
Perciò anelate all'eternità e preparate i vostri cuori nella preghiera. 
Io sono con voi ed intercedo presso il mio Figlio per ciascuno di voi, soprattutto per coloro che si sono consacrati a Me ed a mio Figlio. 
Grazie per aver risposto alla mia chiamata.
------

Commento al Vangelo del 25-10-2014

Dal Vangelo secondo Luca (13,1-9)  
In quel tempo, si presentarono a Gesù alcuni a riferirgli circa quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù rispose: “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Siloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”. Disse anche questa parabola: “Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: Ecco, son tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest'anno, finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l'avvenire; se no, lo taglierai”. 

COMMENTO AL VANGELO - P. LINO PEDRON 
Il brano 13,1-5 ci presenta due fatti di cronaca: una uccisione e un incidente. Nel primo caso sono in gioco la libertà e la cattiveria dell'uomo; nel secondo la violenza del creato. Ma il problema è unico: quello della morte che l'uomo vive come un'indebita violenza. 
Questi due avvenimenti richiamano in modo esemplare ciò che maggiormente scuote la fede del credente: perché Dio permette i soprusi e le violenze, i disastri e i terremoti? 
La storia con le sue ingiustizie, e la natura con la sua insensatezza sembrano dominate dal maligno (cfr Lc 4,6).Il male, continuamente presente nella nostra esistenza, è il problema più rilevante ed è inspiegabile alla ragione. Esso costituisce un problema anche per la fede: la può spegnere o ingigantire. Solo conoscendo i "segni del tempo" possiamo vedere nel male il Signore che viene a salvarci chiamandoci alla conversione. Il problema vero della storia non è l'alternanza al potere del male, ma l'alternativa ad esso. Non basta cambiare i protagonisti: bisogna cambiare il gioco. 
Gesù non condanna Pilato, ma non esalta neppure le sue vittime. Egli vuole portarci a un punto di vista superiore: Pilato e le sue vittime sono insieme vittime dello stesso peccato. Infatti hanno tentato lo stesso gioco: i galilei erano i più deboli e hanno perso. 
Gesù ha rifiutato come mezzi del Regno quelli del nemico: la ricchezza, il potere e l'orgoglio. La violenza genera sempre altra violenza. L'unica arma per vincere tutti i mali è l'amore. Lo stesso peccato, presente in Pilato e nelle sue vittime, è presente anche negli ascoltatori di Cristo. Al posto di Pilato si sarebbero comportati come Pilato, al posto dei guerriglieri galilei si sarebbero comportati come i guerriglieri galilei. Ma allora dove sta la verità? Essa sta solamente nel conformare i nostri comportamenti a quelli di Cristo che si fa carico del male di tutti. 
Le calamità naturali non sono una punizione, ma un richiamo alla conversione. Il peccato che ha guastato l'uomo ha sottoposto all'insensatezza anche la natura che aveva in lui il suo fine Si è rotta l'armonia uomo-mondo e ogni evento insensato ci richiama a cercare nella conversione il senso di una vita che il peccato ha esposto al vuoto, al non senso (cfr Rm 8,20). 
Discernere i segni del tempo presente significa leggere ogni fatto come appello a passare dal mondo vecchio al mondo nuovo portato da Cristo. In questo modo il male perde il suo carattere di fatalità e viene dominato dall'uomo che ne sa trarre un bene maggiore: la propria conversione. 
Il brano 13,6-9 ci presenta la parabola del fico sterile: Questa ci aiuta a leggere la nostra storia alla luce di quella di Gesù. La parabola è trasparente. Il Padre e il Figlio si prendono cura dell'uomo e si attendono che egli risponda al loro amore. Ma come il fico è sterile, così l'uomo non fa frutti di conversione (cfr Lc 3,8). Ma Dio accorda una proroga all'uomo e prodiga la sua cura perché fruttifichi e non venga tagliato. 
Il "quest'anno" del v. 8 indica tutti gli anni e i secoli delle generazioni che verranno. E' l'anno della pazienza e della misericordia di Dio: "Egli usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi" (2Pt 2,9). Ma non dobbiamo fare come gli "empi che trovano pretesto alla loro dissolutezza nella grazia di Dio" (Gd 4). Non ci si deve prendere gioco della ricchezza della bontà di Dio, della sua tolleranza e della sua pazienza, ma riconoscere che la bontà di Dio ci spinge alla conversione (cfr Rm 2,4). 
La parabola pone l'accento sulla bontà di Dio. La cattiveria dell'uomo non può impedire a Dio di essere buono.
------

martedì 21 ottobre 2014

All'inizio del cielo

MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA DOMUS SANCTAE MARTHAE
Venerdì, 17 ottobre 2014 (da: L'Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIV, n.238, Sab. 18/10/2014) 

Il cristiano non può permettersi di «essere tiepido»: ha un’identità precisa che è data dal sigillo dello Spirito Santo. Torna la riflessione sull'inizio della lettera agli Efesini e sui cristiani «scelti dal Signore prima della creazione del mondo» durante la messa celebrata da Papa Francesco questa mattina, venerdì 17 ottobre, nella cappella di Santa Marta. Tra i presenti anche Enzo Camerino, sopravvissuto alla Shoah, che già aveva incontrato il Pontefice il 16 ottobre 2013, nel settantesimo anniversario del rastrellamento del ghetto di Roma. «Il Signore — ha detto il Pontefice all'omelia richiamando le parole di san Paolo — non solo ci ha scelti», ma anche «ci ha dato un’identità». E, ha spiegato, non abbiamo ricevuto in eredità semplicemente un nome, «ma un’identità, un modo di vivere, che non è soltanto un elenco di abitudini, è di più: è proprio un’identità». E come siamo stati “segnati” così profondamente? Lo scrive l’apostolo: «Avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo». 
La nostra identità, ha detto il vescovo di Roma, «è proprio questo sigillo, questa forza dello Spirito Santo, che tutti noi abbiamo ricevuto nel battesimo». E giacché lo Spirito Santo che ci era stato promesso da Gesù, «ha sigillato il nostro cuore» e, di più, «cammina con noi» non solo ci dà l’identità, ma, anche, «è caparra della nostra eredità. Con lui il cielo incomincia». Ecco allora che il cristiano agisce nella vita terrena ma vive già nella prospettiva della «eternità». Ha ribadito Papa Francesco: «Noi abbiamo il cielo in mano con questo sigillo». Ma la vita quotidiana è costellata di tentazioni, prima di tutto quella di «non rendersi conto di questa bellezza, che noi abbiamo ricevuto». Quando questo accade, lo Spirito, per usare un’espressione paolina, «si rattrista»: succede, ha sottolineato, «quando noi vogliamo, non dico cancellare l’identità, ma renderla opaca». È il caso del «cristiano tiepido», quello che «va a messa la domenica, sì, ma nella sua vita l’identità non si vede», quello che pur essendo un cristiano, sostanzialmente «vive come un pagano». C’è poi un altro rischio, l’altro peccato «di cui Gesù parlava ai discepoli» quando li avvisava: «Guardatevi bene dal lievito dei farisei, che è l’ipocrisia». 
Succede, ha ricordato il Papa, che si «faccia finta di essere cristiani», che manchi la “trasparenza” dell’agire, che a parole si professi una cosa ma nei fatti si agisca diversamente. «E questo — ha aggiunto — è quello che facevano i dottori della legge», è il lievito dell’«ipocrisia» che rischia di crescere dentro di noi. Rendere opaca la nostra identità e tradirla nei fatti sono «due peccati contro questo sigillo» che «è un bel dono di Dio, lo Spirito» ed è «caparra di quello che ci aspetta, che ci è stato promesso». Per questo possiamo dire che «abbiamo il cielo in mano». 
Qual è, allora, si è chiesto il Pontefice «l’atteggiamento vero di un cristiano?». Lo impariamo dallo stesso Paolo: «Il frutto dello Spirito, quello che viene dalla nostra identità, è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé». 
È questa, ha concluso Papa Francesco, «la nostra strada verso il cielo».
-------

Commento al Vangelo del 21-10-2014

Dal Vangelo secondo Luca (12,35-38)
Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli apra- no subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell'alba, li troverà così, beati loro! 

L’insegnamento sulla fugacità e insicurezza dei beni terreni del brano evangelico di ieri ha riportato l’attenzione verso il regno di Dio e i tesori del cielo. I cristiani devono tenersi pronti per la venuta inattesa e improvvisa di Gesù. Essa è prospettata ad essi come un punto di costante riferimento per tenere sveglie le loro re sponsabilità e la loro dedizione al regno del Signore. Gesù è la guida invisibile della Chiesa; nessuno sa quando si manifesterà apertamente, ma tutti sanno che è presente e sollecita la massima collaborazione da parte di ognuno. 
L ’insicurezza del ritorno del Signore deve tenere costantemente desta l’attenzione e l’operosità dei suoi cristiani. Il servo fedele deve dare prova di aspettare il suo padrone anche nelle ore insolite, quando normalmente tutti dormono. Il sacrificio può apparire grande, ma la ricompensa sarà ancora più grande. 
Il richiamo alla venuta del Signore è essenziale nel vangelo. La vita del cristiano è un’a ttesa del Signore che viene. Il credente è colui che sa aspettarlo e sta ad aspettarlo. Egli veglia nella notte del mondo per far risplendere con le sue opere la luce di Dio. La cintura ai fianchi è la tenuta di lavoro, di servizio e di viaggio prescritta per la cena pasquale (cfr Es 12,11). Questo è l’atteggiamento corretto per attendere il Signore. N on bisogna guardarlo in cielo, ma testimoniarlo sulla ter- ra (cfr At 1,11). Il Signore che viene e bussa alla porta è un’allusione all’eucaristia; il Signore si invita a cena a casa nostra: "Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me" (Ap 3,20). 
La sua venuta finale è vissu ta quotidianamente nella cena eucaristica. La beatitudine del cristiano è vivere una vita pasquale, di cui la sorgente è l’e ucaristia (cfr Lc 14,15), dove la storia di Gesù si fa no- stro presente e ci introduce nel nostro futuro. L’esistenza cristiana è attesa dello Sposo che viene per prenderci definitivamente con sé. Il cristiano non ha qui la sua patria. La casa della sua nostalgia è altrove. St raniero e pellegrino sulla terra (cfr 1Pt 2,11) non ha quaggiù una città stabile, ma cerca quella futura ( cfr Eb 13,14). "La nostra patria è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo (Fil 3,20). Il suo ritorno sarà nella notte, figura della morte personale. Il credente, giorno dopo giorno, non si stanca del rita rdo del suo Signore, non si distrae, non perde la fiducia dell’incontro beatificante con lui. 
Padre Lino Pedron
------------

Commento al Vangelo del 20-10-2014

Dal Vangelo secondo Luca (12, 13-21)
In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: “Maestro, di' a mio fratello che divida con me l'eredità”. Ma egli rispose: “O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?”. E disse loro: “Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell'abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni”. Disse poi una parabola: “La campagna di un uomo ricco aveva dato un buon raccolto. Egli ragionava tra sé: Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti? E disse: Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia. Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio”. 

COMMENTO AL VANGELO - P. LINO PEDRON 
Questa parabola descrive l'uomo che fa consistere la propria sicurezza nell'accumulo dei beni. Cristo e i suoi discepoli, invece, pongono la loro sicurezza nell'amore del Padre. La loro vita non sta nei beni, ma in colui che li dona: Dio. I beni di questo mondo non devono essere né adorati né demonizzati: vanno usati secondo la volontà del Donatore. Con l'accumulo dei beni l'uomo crede di essersi assicurate la felicità e una lunga vita. Ma così facendo si rivela stolto, perché non ha messo nel conto l'incognita della morte. Ha ragionato come se fosse padrone della propria vita, allo stesso modo che si sente padrone del suo raccolto. La drammaticità della situazione sta appunto nell'estrema insicurezza della vita. Accanto ai granai si possono mettere tutti gli altri beni: la salute, il potere, il denaro. Non contano nulla per vivere bene, per vivere a lungo, perché la durata della vita non dipende da queste cose. Il problema suscitato da questo tale diventa un'occasione di insegnamento per tutti, perché tutti siamo vittime dello stesso male. 
Ciò che divide i fratelli è la spartizione di ciò che di per sé dovrebbe unirli: i beni della terra, che sono doni di Dio per la fraternità e la condivisione nell'amore. Questa è la causa di tutte le guerre, di tutte le lotte sindacali e sociali e di tutte le inimicizie familiari che sorgono in occasione delle divisioni dell'eredità. L'amore per le cose di cui appropriarsi sostituisce quello per il Padre e per i fratelli. Questo litigio per l'eredità è l'emblema della situazione umana: dimenticando il Padre, gli uomini litigano per arraffare la roba. L'avidità di vita, nata dalla paura della morte, trasforma in causa di odio e di morte ciò che in realtà è dono di amore. In questo modo è stravolto tutto il senso della creazione. La controproposta che Gesù fa è ugualmente incentrata sull'accumulare tesori, ma non per sé, ma per arricchire davanti a Dio (v.21). La ricchezza che conta è quella accumulata nei cieli ed è costituita dai beni dello spirito, dalla rettitudine, dalla giustizia, dalla carità. Nel capitolo 16 di questo vangelo Gesù ci insegna: "Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand'essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne" (v.9). In definitiva si è ricchi solo di ciò che si dà. Il destino dell'uomo dipende dall'uso corretto delle creature: o sono mezzi per amare Dio e il prossimo o diventano fine e surrogato di Dio. 
Il progetto dell'uomo che non conosce l'amore del Padre è ingrandire il proprio granaio per avere sempre di più. Più uno ha e più aumenta il desiderio di avere. La stoltezza poi arriva al culmine quando ci si compiace dei beni, facendo di essi la propria vita e la propria sicurezza. Dall'uso delle cose materiali deriva la realizzazione o il fallimento dell'uomo. I beni del mondo danno la morte quando sono accumulati per paura della morte; danno la vita quando sono condivisi coi fratelli per amore del Padre.
-----

Beatificazione Paolo VI. Francesco: un testimone umile e profetico dell'amore a Cristo

Due grandi eventi per la Chiesa universale sono stati suggellati dalla Messa celebrata stamane da Papa Francesco in Piazza San Pietro, affollata da 70 mila fedeli di ogni parte del mondo, presente sul sagrato il Papa emerito Benedetto XVI: la conclusione del Sinodo straordinario dei vescovi sulla famiglia e la Beatificazione del Servo di Dio, Paolo VI, al secolo Giovanni Battista Montini. Per dono dello Spirito Santo - ha detto Francesco nell’omelia - si è lavorato nel Sinodo con “vera libertà e umile creatività”, per “riaccendere la speranza in tanta gente senza speranza”. Poi un grazie ripetuto a Paolo VI, per il suo ministero coraggioso, saggio e lungimirante. All’Angelus il richiamo all’odierna Giornata missionaria mondiale. 
“Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”: con “questa frase ironica e geniale - ha esordito il Papa nell’omelia, ispirato dal  Vangelo domenicale – Gesù risponde “alla provocazione dei farisei che, per cosi dire, volevano fargli l’esame di religione e condurlo in errore"
“È una risposta ad effetto che il Signore consegna a tutti coloro che si pongono problemi di coscienza, soprattutto quando entrano in gioco le loro convenienze, le loro ricchezze, il loro prestigio, il loro potere e la loro fama. E questo succede in ogni tempo, da sempre”.
Rendere a Dio quello che è di Dio, “significa - ha spiegato Francesco - riconoscere e professare di fronte a qualunque tipo di potere - che Dio solo è il Signore dell'uomo”, significa “aprirsi alla sua volontà”, e “cooperare al suo Regno di misericordia, di amore, di pace”:
“Questa è la novità perenne da riscoprire ogni giorno, vincendo il timore che spesso proviamo di fronte alle sorprese di Dio”.
Dio invece “non ha paura delle novità!” Lui “ci fa ‘nuovi’ continuamente” e “continuamente ci sorprende, aprendoci a vie impensate”:
“Qui sta la nostra vera forza, il fermento che la fa lievitare e il sale che dà sapore ad ogni sforzo umano contro il pessimismo prevalente che ci propone il mondo. Qui sta la nostra speranza perché la speranza in Dio non è quindi una fuga dalla realtà, non è un alibi”:
Anzi “è rispondere, con coraggio, alla innumerevole sfide nuove”, cosi come è stato - ha sottolineato Francesco - durante il Sinodo straordinario dei vescovi, che ha visto “pastori e laici di ogni parte del mondo” portare a Roma “la voce delle loro Chiese particolari per aiutare le famiglie di oggi a camminare sulla via del Vangelo, con lo sguardo fisso su Gesù”:
“È stata una grande esperienza nella quale abbiamo vissuto la sinodalità e la collegialità, e abbiamo sentito la forza dello Spirito Santo che guida e rinnova sempre la Chiesa chiamata, senza indugio, a prendersi cura delle ferite che sanguinano e a riaccendere la speranza per tanta gente senza speranza”.
E lo Spirito Santo, ha invocato il Papa, che ha permesso al Sinodo di “lavorare generosamente con vera libertà e umile creatività”, “accompagni ancora il cammino che, nelle Chiese di tutta la terra”, “prepara al Sinodo ordinario dei vescovi del prossimo ottobre 2015”:
“Abbiamo seminato e continueremo a seminare con pazienza e perseveranza, nella certezza che è il Signore a far crescere quanto abbiamo seminato.”
(Musica)
Quindi l’omaggio a Paolo VI, oggi beatificato, e la memoria delle sue parole con le quali istituiva il Sinodo dei vescovi, il 15 settembre 1965:
“…scrutando attentamente i segni dei tempi, cerchiamo di adattare le vie ed i metodi ... alle accresciute necessità dei nostri giorni ed alle mutate condizioni della società…”
Giovanni Battista Montini, “grande Papa”, “coraggioso cristiano”, “instancabile apostolo”; “davanti a Dio oggi - ha detto Francesco - non possiamo che dire una parola tanto semplice quanto sincera ed importante”:
“Grazie! Grazie nostro caro e amato Papa Paolo VI! Grazie per la tua umile e profetica testimonianza di amore a Cristo e alla sua Chiesa!”
“Grande timoniere” del Concilio Vaticano II, Paolo VI annotava nel suo diario, che forse il Signore lo aveva chiamato a quel compito non tanto perché governasse o salvasse la Chiesa dalle difficoltà allora presenti, perché a Dio spetta di farlo, ma perché lui soffrisse qualche cosa per la Chiesa.
“In questa umiltà risplende la grandezza del Beato Paolo VI che, mentre si profilava una società secolarizzata e ostile, ha saputo condurre con saggezza lungimirante - e talvolta in solitudine - il timone della barca di Pietro senza perdere mai la gioia e la fiducia nel Signore”.
-----------

Commento al Vangelo del 19-10-2014, dom. 29^ t. ord. "A"

A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio 
I farisei, temendo, col porre le mani addosso a Gesù, di suscitare nel popolo una rivolta, si consultarono insieme per trovare il modo di farlo capitare tra le mani dell’autorità romana. Ordirono, perciò, un inganno ben architettato, e lusingando Gesù sulla sua veridicità e lealtà, e sulla sua ferma intransigenza di fronte alla verità e al dovere, gli domandarono, per mezzo dei loro discepoli, se era lecito o no pagare il tributo a Cesare. Dopo l’occupazione romana della Palestina, ogni ebreo era costretto a pagare il tributo all’imperatore che, con nome generale, veniva chiamato Cesare. Questo tributo era odiosissimo per gli Ebrei, essendo il segno palese della perdita della loro indipendenza. Si pagava in moneta romana, sulla quale c’era l’effigie di Tiberio. 
I farisei, sapendo che Gesù si proclamava il Messia, erano certi che egli avrebbe biasimato il pagamento del tributo; supponevano che il Messia dovesse essere un restauratore dell’indipendenza nazionale, e credevano che Gesù non potesse approvare il pagamento del tributo, senza rinnegare la sua qualità di Messia, alla quale credevano che tenesse per fanatismo e per illusione. D’altra parte pensarono che se Egli l’avesse approvato, sarebbe riuscito inviso al popolo, e che in ogni caso l’avrebbero costretto a smetterla. Per tutto questo insieme subdolo, Gesù, rispondendo, li chiamò ipocriti, smascherandoli così nelle loro intenzioni maligne. Per confonderli, poi, domandò che gli mostrassero la moneta del tributo e, dopo che l’ebbero mostrata, chiese di chi era quell’immagine e quell’iscrizione. Alla loro risposta che era di Cesare, disse quelle memorande parole che li lasciarono stupefatti: Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio. 
Circolando nel popolo la moneta imperiale di Roma, era evidente che la nazione sottostava di fatto a Cesare; il tributo si dava come concorso alle spese di amministrazione e, permanendo l’impero di Cesare, era giusto darlo a lui. Sotto qualunque sovranità, infatti, si pagano le tasse, perché esse sono parte dell’amministrazione comune e contributo ai vantaggi comuni che ne derivano; pagare le tasse non significa giustificare un sopruso, ma sottostare a una situazione di fatto; non si trattava di sapere se si poteva o non pagare, perché si doveva pagare; era dunque logico che si rendesse a Cesare ciò che era di Cesare, cioè che si sottostesse a uno stato di fatto che non riguardava la coscienza, ma una necessità fiscale imprescindibile. Gesù soggiunse subito: Rendete a Dio ciò che è di Dio, per far riflettere al popolo che per non essere stato fedele al Signore, aveva avuto, come castigo, la dominazione straniera, e che, invece di pensare a ribellarsi a Cesare, dovevano piuttosto pensare a riconciliarsi con Dio. 
Sotto qualunque dominazione, l’anima deve essere di Dio, e tributargli l’amore e l’onore che gli è dovuto; le condizioni politiche della nazione nella quale si vive non possono in nessun modo dispensare da questo dovere che è il principale; pagare o non pagare il tributo, dunque, non era una questione essenziale, ma era imprescindibile dare a Dio ciò che è di Dio, anche se si fosse dovuto urtare l’autorità di Cesare. 
Il potere civile e religioso 
Le parole di Gesù Cristo sono state in ogni tempo la regola dell’armonia del potere civile e di quello religioso; il potere civile ha le sue attribuzioni, ma esse sono limitate a ciò che è temporale, e sempre subordinatamente a quello che è spirituale. Il potere civile, strettamente parlando, non domina ma serve, perché è ordinato al bene comune e al bene individuale di quelli che formano la nazione; dovrebbe rappresentare un potere paterno in mezzo alla famiglia umana, con tutte le prerogative della potestà paterna. Ogni potestà viene da Dio, ed è assurdo pretendere che venga dal popolo; il potere civile rappresenta la divina provvidenza negli affari temporali, in quanto questi sono ordinati alla vita presente e a quella futura, il potere religioso rappresenta la divina autorità che domina tutto nell’amore, e guida le anime alla vita eterna, pur non prescindendo dalla loro condizione di vita sulla terra. Il potere religioso che è uno solo, di diritto divino, quello della Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana è immensamente superiore a quello civile, e deve moderarlo nel suo esercizio, affinché non esorbiti e non diventi tiranno. 
Rendere a Cesare ciò che è di Cesare, non significa riconoscere a Cesare un potere indipendente dal controllo materno della Chiesa, e tanto meno significa ammettere un’autorità che possa esigere di controllare la Chiesa, ma comporta solo il dovere di dare all’autorità civile il contributo che le spetta per l’amministrazione dello Stato, e di conseguenza osservarne le giuste leggi. Estendere le parole di Gesù oltre questi limiti significa alterarne il senso. Anche nel campo della legislazione, lo Stato non può superare i limiti dell’amministrazione temporale, di modo che è assurdo che esso presuma di dettare leggi che riguardano direttamente o indirettamente i valori morali o religiosi. È invalsa troppo la mania, spesso delittuosa, di presentare come legge qualunque capriccio o qualunque sopruso di chi governa. La legge non può ispirarsi che a quella di Dio, e non può prescindere dalle supreme direttive della Chiesa. Per questo nell’antico patto non fu Mosè che legiferò, ma fu Dio che gli dettò le leggi. I tempi sono mutati, la società si è confusa, le teste si sono annebbiate, ma questo non significa che si siano mutate le basi che reggono l’umanità. Cesare amministra, non crea e, come amministratore, deve sottostare alle supreme leggi di Dio, Creatore e Padrone di tutto, rispettare la Chiesa che lo rappresenta. 
Si deve notare che i farisei non andarono direttamente a domandare a Gesù se era lecito pagare il tributo a Cesare, ma fecero andare da lui alcuni dei loro discepoli insieme a parecchi rappresentanti della setta degli erodiani, favorevoli al dominio di Roma, affinché Egli avesse parlato innanzi a testimoni già ammaestrati, i quali avrebbero potuto riferire alle autorità romane la sua risposta e comprometterlo. Era dunque una mossa politica la loro, una di quelle mosse delle quali purtroppo è intessuta la politica moderna. La menzogna anche sfacciata, l’inganno, la turlupinatura, e la miseria morale sono spesso la base della politica, e da questo si può misurare quanto essa è lontana da Dio; perciò, invece di idolatrare lo Stato, fino a crederlo unica autorità suprema, bisogna pensare, prima di tutto e sopra di tutto, a rendere a Dio ciò che è di Dio, prestando ossequio all’autorità della Chiesa. Questo è tanto più necessario oggi che dall’idolatria del cosiddetto popolo sovrano si sta passando all’idolatria dei dittatori e degli Stati totalitari, con immenso danno delle anime e specialmente della gioventù. Rendiamo a Dio quel che è di Dio, diamogli tutto il nostro cuore e tutta la nostra vita, perché tutto è suo, e tendiamo, con tutta l’anima nostra, alla vita eterna 
Padre Dolindo Ruotolo
-------

venerdì 17 ottobre 2014

Commento al Vangelo del 17-10-2014

Dal Vangelo secondo Luca (12,1-7)
In quel tempo, radunatesi migliaia di persone a tal punto che si calpestavano a vicenda, Gesù cominciò a dire anzitutto ai discepoli: “Guardatevi dal lievito dei farisei, che è l'ipocrisia. Non c'è nulla di nascosto che non sarà svelato, né di segreto che non sarà conosciuto. Pertanto ciò che avrete detto nelle tenebre, sarà udito in piena luce; e ciò che avrete detto all'orecchio nelle stanze più interne, sarà annunziato sui tetti. A voi miei amici, dico: Non temete coloro che uccidono il corpo e dopo non possono far più nulla. Vi mostrerò invece chi dovete temere: temete Colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella Geenna. Sì, ve lo dico, temete Costui. Cinque passeri non si vendono forse per due soldi? Eppure nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio. Anche i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non temete, voi valete più di molti passeri”. 

COMMENTO AL VANGELO - P. LINO PEDRON 
La nota più spiccata dei farisei, e che meglio li caratterizza, è l'ipocrisia. Il termine indica la capacità di recitare in teatro. Gli ipocriti sono gli attori, i commedianti. Alla radice dei comportamenti dell'ipocrisia sta il protagonismo. Sopra il volto degli uomini c'è questa maschera da commedianti che impedisce loro di riconoscersi creature di Dio: essi scambiano la vita per una recita da teatro e credono di essere il personaggio interpretato sul palcoscenico. 
I farisei recitano molto bene la parte dei giusti e dei santi, ovviamente, senza esserlo. Il loro inganno, presto o tardi, viene alla luce. Il cristiano è chiamato a discernere il lievito che muove la sua vita: è il timore della morte, che porta all'ipocrisia e all'accumulo dei beni, o il timore di Dio, che porta alla verità e alla libertà nella misericordia? Il primo è il regno della morte, il secondo è il regno di Dio. 
La paura fondamentale da vincere è quella della morte, con la quale satana domina il mondo (cfr Eb 2, 14-15). Per sfuggire alla morte la soluzione non è quella di rinnegare Cristo nel tempo della persecuzione, ma quella di relativizzare la sua gravità. La morte fisica è superficiale, non tocca la realtà più profonda dell'uomo, non lo priva della vera vita (v.4). I persecutori possono colpire solo la vita fisica dell'uomo. La vita vera non la raggiungono; non possono privare l'uomo della sua vera esistenza. Per questo non sono da temere. L'unico da temere è Dio. Il discorso del timore di Dio è il più arduo da conciliare con il messaggio evangelico. 
L'immagine di Dio che punisce con la dannazione eterna è la più contraria alla predicazione di Gesù, imperniata sulla rivelazione di Dio Padre, pieno di amore e di misericordia con i giusti e con gli ingiusti. Temere Dio significa accettare concretamente la verità che Dio è Dio, e non volerlo perdere perché lui è la nostra vita (Dt 30, 20). Se l'uomo non vuole la morte come suo Dio, tema solo Dio come Signore della sua vita. Il vangelo parla dell'inferno non per terrorizzare l'uomo, ma per renderlo cosciente del male che fa a se stesso quando segue come guida la paura della morte, che è sempre una cattiva consigliera: essa, mentre suggerisce di cercare ogni briciola di vita, fa cadere nell'egoismo che distrugge totalmente la vita. La paura dell'inferno non deve portare ad avere paura di Dio, ma del male che ci allontana da Dio. Qui concretamente il vangelo dice di temere il giudizio di Dio più di quello degli uomini. Il timore deriva dalla coscienza della nostra piccolezza e, soprattutto, dalla consapevolezza del nostro peccato. 
Ma Dio è amore e misericordia e si prende cura dei suoi piccoli e dei suoi poveri. Anche i capelli del nostro capo sono tutti contati (v.7). Al di sopra dei persecutori e dei tiranni c'è Dio che veglia e si prende cura delle sue creature. E la conoscenza che Dio ha delle sue creature è benevolenza e amore. La conclusione perciò è che i discepoli non devono avere alcun timore (v.7). Anche se nel tempo delle persecuzioni i discepoli possono annunciare il vangelo solo nelle ore notturne o nel segreto delle case private, devono avere la certezza che la parola di Dio è potente e riesce sempre a venire alla luce, e che non può essere repressa da nessuna forza del mondo.
------

giovedì 16 ottobre 2014

Commento al Vangelo del 16-10-2014

+ Dal Vangelo secondo Luca (11,47-54)
In quel tempo, il Signore disse: “Guai a voi, che costruite i sepolcri dei profeti, e i vostri padri li hanno uccisi. Così voi date testimonianza e approvazione alle opere dei vostri padri: essi li uccisero e voi costruite loro i sepolcri. Per questo la sapienza di Dio ha detto: Manderò a loro profeti e apostoli ed essi li uccideranno e perseguiteranno; perché sia chiesto conto a questa generazione del sangue di tutti i profeti, versato fin dall'inizio del mondo, dal sangue di Abele fino al sangue di Zaccaria, che fu ucciso tra l'altare e il santuario. Sì, vi dico, ne sarà chiesto conto a questa generazione. Guai a voi, dottori della legge, che avete tolto la chiave della scienza. Voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare l'avete impedito”. Quando fu uscito di là, gli scribi e i farisei cominciarono a trattarlo ostilmente e a farlo parlare su molti argomenti, tendendogli insidie, per sorprenderlo in qualche parola uscita dalla sua stessa bocca. 

I farisei erano gli scolari docili e fedeli dei dottori della legge. Essi realizzavano nella vita ciò che questi insegnavano. I rimproveri rivolti ai farisei colpiscono dunque anche i dottori della legge. Essi si ponevano sullo stesso piano dei profeti ed esigevano di essere ascoltati come Mosè, come la legge stessa. Gesù aveva già detto: "Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno"(Mt 23,2-3). 
Nel brano di oggi Gesù rivolge ai dottori della legge due rimproveri: 1) Essi costruiscono monumenti funebri ai profeti uccisi dai loro antenati perché annunciavano la parola di Dio; e intanto cercano di uccidere il più grande dei profeti, Gesù. 2) Si arrogano il diritto esclusivo di spiegare la Scrittura e di interpretare la volontà di Dio e, di conseguenza, si credono le uniche guide autorizzate che conducono alla conoscenza di Dio e alla vita eterna; e intanto rifiutano Gesù e impediscono che altri lo riconoscano e giungano tramite il suo vangelo e la sua opera, alla conoscenza di Dio e alla vita eterna. I rimproveri diretti contro i dottori della legge hanno il loro motivo più profondo nel rifiuto di Gesù. 
Egli è il profeta di Dio che riassume e supera la parola di tutti i profeti. Egli solo ha la chiave della conoscenza e dà la conoscenza: "Nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare" (Lc 10,22). La colpa più grave dei dottori della legge è questa: non solo non riconoscono Gesù, ma impediscono anche al popolo di riconoscerlo. Tutti i difetti e i delitti dei dottori della legge trovano la loro radice nel fatto che preferirono la loro sapienza umana alla sapienza di Dio, manifestata in Gesù. I loro padri hanno ucciso i profeti per non convertirsi; i contemporanei di Gesù uccideranno la Parola stessa, il Cristo. La sapienza di Dio è sempre perseguitata e rifiutata, perché è la sapienza della croce, del bene che vince il male portandolo, sopportandolo e perdonandolo. 
Ai contemporanei di Gesù verrà chiesto conto del sangue di tutti i giusti e di tutti i profeti, dall'inizio del mondo. Infatti il mistero dell'iniquità raggiunge il culmine nell'ora della sua passione (cfr Lc 22-23). Ma nella passione di Gesù raggiunge il culmine anche il mistero della bontà di Dio. Questo "ahimè per voi" che Gesù rivolge ai dottori della legge è la sua stessa croce, dove porta su di sé la maledizione della legge e paga il conto di ogni nostro delitto. Se il sangue di Abele, il primo giusto ucciso, grida dalla terra a Dio (Gen 4,10), quello di Gesù la lava da ogni macchia. Zaccaria, l'ultimo profeta ucciso, muore dicendo: "Il Signore ve ne chieda conto" (2Cr 24,20ss), Gesù crocifisso dirà: "Padre, perdona loro" (Lc 23,24). 
La giustizia della legge infatti denuncia e fa vedere il peccato davanti a Dio; la sapienza del vangelo, invece, lo perdona e se ne fa carico. I dottori della legge tolgono la chiave della conoscenza di Dio, perché danno l'immagine di un Dio senza misericordia. Stanno lontani loro e tengono lontani anche gli altri. Ma la sapienza di Dio si servirà della loro insipienza: la croce che essi leveranno sarà l'unica, vera chiave per entrare nella conoscenza di Dio.
-----

mercoledì 15 ottobre 2014

Commento al Vangelo del 15-10-2014

Dal Vangelo secondo Luca (11,42-46)
In quel tempo, Gesù disse: “Guai a voi, farisei, che pagate la decima della menta, della ruta e di ogni erbaggio, e poi trasgredite la giustizia e l'amore di Dio. Queste cose bisognava curare senza trascurare le altre. Guai a voi, farisei, che avete cari i primi posti nelle sinagoghe e i saluti sulle piazze. Guai a voi perché siete come quei sepolcri che non si vedono e la gente vi passa sopra senza saperlo”. Uno dei dottori della legge intervenne: “Maestro, dicendo questo, offendi anche noi”. Egli rispose: “Guai anche a voi, dottori della legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito!”. 

COMMENTO AL VANGELO - P. LINO PEDRON 
Il fariseismo rappresenta la deviazione più frequente della religione. In esso l'esperienza di fede viene ridotta a un meccanismo di cerimonie, di riti, di pratiche, senza preoccuparsi di riempirle di un contenuto. Il fariseo che ha invitato Gesù a pranzo è rimasto meravigliato che non abbia eseguito le abluzioni rituali prima di sedersi a tavola. 
I farisei credono di fare la volontà di Dio purificando l'esterno e dimenticando che Dio guarda soprattutto l'interno dell'uomo. Difatti si lavano attentamente e scrupolosamente prima dei pasti, ma dentro, nel loro cuore, rimangono pieni di cattiveria e di rapacità. Ma la vera purità interiore non si ottiene con i riti, ma liberando l'animo dall'attaccamento egoistico a noi stessi e ai nostri beni, per soccorrere gli indigenti. 
Il cuore diventa puro mediante l'amore fraterno. Il fariseo ha due caratteristiche: "presume di essere giusto" e "nientifica gli altri" (Lc 18,9), cioè li disprezza cordialmente e non li valuta per nulla. A queste due ne aggiunge una terza, comune a tutti: ama il denaro (cfr Lc 16,14), senza il quale nessuna presunzione è in grado di farsi valere. Egli si vanta davanti a Dio e agli uomini, rubando la gloria di Dio e disprezzando i fratelli. Ha sostituito la misericordia di Dio con la propria impeccabilità. Invece di mettere Dio al centro di tutto, ha messo se stesso. Anche Dio è in funzione di lui. 
Il fariseo è il "nemico" numero uno di Gesù ed è quindi particolarmente amato da lui (cfr Lc 6,27.35). Il vangelo di Luca sembra scritto apposta per convincere i giusti che sono peccatori, e così convertirli e salvarli insieme con gli altri peccatori pentiti.
-----

Preghiera mattutina-26

22-feb-2014 
Preghiamo lo Spirito Santo affinché la Chiesa sia pronta su questa terra ad offrire la sua vita per gli uomini e a lasciarsi ferire come ha fatto il Signore. 
Pronta ad offrirsi per la miseria del mondo; affinché venga il regno di Dio. 
Noi ti preghiamo: fa' che giunga presto il giorno in cui potremo indirizzarti le nostre preghiere e servirti d'un solo cuore e d'un solo spirito nella pace e nell'amore del corpo di Cristo.
----

Preghiera mattutina-25

21-feb-2014
Padre, fonte della vita, ti ringrazio per avermi conservato nell'essere e per avermi donato questo nuovo giorno. "Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde se stesso?": il tuo Santo Spirito scriva queste parole del tuo Figlio nel mio cuore. 
Che io non perda oggi me stesso, dandomi in cambio dei beni limitati e passeggeri.
-----

martedì 14 ottobre 2014

Il mondo ha bisogno di preghiere

Bisogna pregare senza mai stancarsi, il mondo ha bisogno di preghiere.
La preghiera è un' elevazione, non solo dell'anima, ma dell' essere nella sua totalità a Dio, spirito e corpo si fondono in un movimento sincronizzato che ci congiunge al Cielo.
Pregando entriamo in diretto contatto con Dio. Affinché le nostre preghiere arrivino a destinazione, è opportuno che questo atto introspettivo di profonda fede parta dal cuore e dal nostro cuore arriva a quello di Cristo, generando un' unione spirituale totale : "Chi rimane in Me e Io in lui, fa molto frutto perché senza di me non potete fare nulla...Se rimanete in me le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà dato.
( Giov 15,5-7).
"La preghiera è necessaria all'uomo come l'acqua è necessaria per la vita del pesce"( S. Agostino).
"Niente al mondo è più forte del giusto che prega. L'uomo che prega ha le mani sul timone della storia" (S. Giovanni Crisòstomo).
"Vorrei essere un predicatore. Salirei su di una montagna e griderei a tutta la terra: Uomini, pregate! Chi lascia l'orazione presto diventa o una bestia o un demonio. (S. Teresa d'Avila)
La preghiera è l'arma invincibile contro i pericoli del mondo. Pregate! La preghiera è la chiave dei tesori di Dio e il mezzo per raggiungere la vittoria nella lotta del bene contro il male. (Padre Pio)
La crisi in cui riversa oggi l' intera umanità , una crisi che ha travolto anche l'universo dei consacrati, è generata principalmente da una crisi della vita spirituale. Le cose terrene, ciò che è esteriore all' uomo, hanno preso il sopravvento sul mondo interiore.
Gesù pregava incessantemente, trascorreva intere notti in meditazione (v. Luca 6,12, Marco 1,35; Matteo 14,23).
La preghiera deve tornare ad essere la prima manifestazione della nostra presenza nella Chiesa.
Dobbiamo conformarci a Lui affinché la nostra anima possa essere salvata dobbiamo riscoprire il valore del silenzio, allontanandoci da tutto ciò che genera rumore, ci distrae e ci allontana dal cammino retto.
Solo nel silenzio e nella meditazione possiamo tornare ad ascoltare la Parola di Dio, oggi siamo diventati sordi ma è solo colpa nostra! Il Padre Celeste, anche attraverso Maria, non ha mai smesso di parlarci neanche per un solo istante.
Ave Maria!
Maria M.

------

giovedì 9 ottobre 2014

Commento al Vangelo del 9-10-2014

Dal Vangelo secondo Luca (11,5-13) 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Se uno di voi ha un amico e va da lui a mezzanotte a dirgli: Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti; e se quegli dall'interno gli risponde: Non m'importunare, la porta è già chiusa e i miei bambini sono a letto con me, non posso alzarmi per darteli; vi dico che, se anche non si alzerà a darglieli per amicizia, si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza. Ebbene, io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!”. 

COMMENTO AL VANGELO - P. LINO PEDRON 
Questa parabola è un commento a Lc 11,3: "Dacci oggi il nostro pane quotidiano". Ci esorta a una preghiera coraggiosa, a una fede senza esitazioni. Potrebbe essere riassunta con il detto ebraico, che recita così: "L'importuno vince il cattivo, tanto più Dio infinitamente buono". 
Gesù ci assicura che Dio esaudisce ogni preghiera. Egli non è sordo alle richieste dell'uomo. Non si nasconde davanti a lui. E questo, perché ama infinitamente l'uomo, suo figlio. Quindi il problema non esiste da parte di Dio ma, eventualmente, da parte dell'uomo. L'uomo prega solo se si sente veramente bisognoso: i sazi e i buontemponi non sentono il bisogno di pregare. La prima condizione per la preghiera è la consapevolezza della propria povertà. L'unica condizione che Gesù pone per l'esaudimento delle nostre preghiere presso Dio è la fiducia, anzi, la certezza di essere ascoltati. Se l'uomo si commuove davanti alle necessità di un amico o di un figlio, tanto più Dio. Le parole "molestia" e "importunità" sottolineano l'insistenza e il coraggio del richiedente. Se già gli uomini egoisti, falsi amici, ecc. alla fine si scomodano ed esaudiscono, quanto più dobbiamo avere piena fiducia in Dio. Egli non ci ascolta per togliersi d'attorno uno scocciatore, ma perché è il vero nostro amico: è il nostro papà. Le preghiere rivolte a Dio possono assomigliare a quelle di un figlio verso il padre umano. E' impensabile che questi risponda con cattiverie alle richieste di cibo del figlio. Non c'è un padre così spietato tra gli uomini, tanto meno si può pensare che un tale comportamento sia possibile in Dio. 
Gli uomini sono cattivi, Dio è buono. 
Se un padre umano, che è cattivo, sa dare cose buone a suo figlio, quanto più il Padre del cielo darà tutto, cioè lo Spirito Santo, a coloro che glielo chiedono. Nel vangelo di san Matteo, Dio dà "cose buone" (7,11), cioè i beni della salvezza, in san Luca dà lo Spirito Santo, che è il Dono dei doni. La differenza tra i due testi è meno rilevante di quanto potrebbe sembrare. L'uomo si raccomanda per il pane e Dio gli dona anche lo Spirito Santo, che è il Dono che contiene tutti gli altri doni. Solo Dio può riempire il cuore dell'uomo. Egli ci dà "molto di più di quanto possiamo domandare o pensare" (Ef 3,20): si dona a ciascuno secondo il suo desiderio. 
L'unica misura del dono è data dal nostro desiderio: che desidera poco, riceve poco; chi desidera tutto, riceve tutto. Il tema dominante è la paternità di Dio che si esprime nel dare. Noi dobbiamo chiedere non perché lui ignori il nostro bisogno, ma perché il dono può essere ricevuto solo da chi lo desidera. Quanti doni di Dio abbiamo rispedito al mittente! Questo brano ci esorta a grandi desideri che ci fanno capaci di ricevere il dono più grande: lo Spirito Santo. Quando il Padre sembra restio a dare, è perché non ci dà ciò che vogliamo, ma ciò che è giusto. Di solito chiediamo a Dio che soddisfi i nostri bisogni immediati e superficiali, ma egli vuol farci scoprire e colmare il nostro bene essenziale: essere suoi figli. Ci nasconde i suoi doni, affinché cerchiamo lui che è il Donatore. Egli esaudisce sempre le nostre preghiere quando sono secondo la sua volontà; e ci fa proprio un grande piacere a non esaudirle quando non sono secondo la sua volontà, perché farebbe il nostro male. Quando preghiamo succede sempre qualcosa di buono, anche se non sempre sappiamo che cosa.
----------

Commento al Vangelo del 8-10-2014

Dal Vangelo secondo Luca (11,1-4)
Un giorno, Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli”. Ed egli disse loro: “Quando pregate, dite: Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore, e non ci indurre in tentazione”.

COMMENTO AL VANGELO - P. LINO PEDRON 
Questa preghiera è un rapporto diretto tra un "Tu" che è il Padre e un "noi" che è il nostro vero io, in quanto siamo in comunione con il Figlio e con i fratelli. La fraternità tra gli uomini si fonda unicamente sulla paternità di Dio. Di conseguenza, non si può stare davanti al Padre separati dal Figlio e dai fratelli: sarebbe negare la sua paternità proprio mentre lo chiamiamo "Padre". Per questo se non amiamo e non perdoniamo i fratelli, non amiamo il Padre e non accettiamo il suo amore e il suo perdono. 
Tutto quanto chiediamo con questa preghiera al Padre, ce lo ha già donato nel suo Figlio e, quindi, la preghiera è aprire la nostra persona ad accogliere quanto Dio ha già realizzato per noi. 
La preghiera è comunione con Gesù e con i fratelli per vivere la vera fraternità e la vera filialità in Cristo ed entrare nel dialogo di Gesù con il Padre. Nella preghiera troviamo la sorgente della nostra vita, il Padre; per questo, chi prega vive e chi non prega muore, secondo il detto di sant'Alfonso de' Liguori: "Chi prega si salva e chi non prega si danna". E sant'Agostino ci insegna: "Chi impara a pregare, impara a vivere". Si impara a pregare pregando Gesù perché ci insegni a pregare: "Signore, insegnaci a pregare" (v.1). Solamente imparando da Cristo, i cristiani pregano da cristiani, figli del Padre e fratelli di Cristo, e vivono secondo il vangelo. 
La preghiera insegnataci da Cristo ci rivela la nostra vera identità di figli nel Figlio. Il Padre ci ama come ama il Figlio; ci ama più di se stesso: "Egli non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi" (Rm 8,32). Avvolti dalla tenerezza di questo amore infinito, possiamo vivere nella serenità e nella fiducia. L'olio e il vino che guariscono le nostre ferite mortali (cfr Lc 10,34) è l'amore di Dio riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito che ci è stato dato (cfr Rm 5,5). Dio sarà sempre nostro Padre, perché il Figlio si è fatto per sempre nostro fratello. 
"Sia santificato il tuo nome" significa glorificare la persona del Padre nella nostra vita, dando a lui l'importanza che ha e, di conseguenza, amandolo con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la mente e con tutte le forze. Il nome di Dio è santificato quando accogliamo il suo amore e la sua paternità e accettiamo di essere suoi figli senza paura del nostro limite e della nostra morte. Chi rifiuta la paternità di Dio cerca di essere padre a se stesso, glorificando il proprio nome. Da questo rifiuto, che è la radice del peccato, nasce l'orgoglio e l'ansia, la paura che ci allontana da lui e ci divide tra noi, la voracità che ci separa dai fratelli e distrugge il creato. Tutti quelli che cercano la propria gloria, non possono credere in Gesù e quindi rifiutano anche il Padre: "Come potete credere, voi che prendete la gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo?" (Gv 5,44). 
"Venga il tuo regno". Il regno di Dio è la liberazione dal potere del diavolo e dalla dannazione eterna; è la sovranità di Dio nostro Padre che ci libera da ogni schiavitù e ingiustizia, da ogni inquietudine e tristezza. Il regno di Dio è già venuto nella persona di Gesù, viene in ogni istante della nostra vita e della storia quando accogliamo Gesù, e verrà nella pienezza della sua gloria quando tutti gli uomini saranno figli del Padre e Dio sarà tutto in tutti (cfr 1Cor 15,28). Il regno di Dio viene ogni volta che accogliamo la misericordia e la compassione di Dio e doniamo ai fratelli la misericordia e la compassione ricevuta da Dio. 
"Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano". Chiediamo al Padre il pane per la vita umana e per la vita divina, per la vita presente e per la vita eterna. Dietro ogni pane c'è la mano del Padre che ce lo porge come dono del suo amore. Il pane "nostro" è dono del Padre per tutti i suoi figli e va condiviso con tutti i fratelli. Chi defrauda l'altro non gli è fratello e non si comporta da figlio di Dio. Dopo il peccato, il pane va guadagnato con il sudore della fronte (Gen 3,19; 2Ts 3,6-13), diversamente è rubato. Il pane di cui l'uomo vive è l'amore di Dio, ed è concesso gratuitamente ad ogni figlio, anche indegno e perverso, perché Dio non ci ama per i nostri meriti ma per il nostro bisogno. 
"Perdonaci i nostri peccati". Dio ci ha creato per dono del suo amore e ci ricrea col per-dono della sua misericordia. E questo secondo dono è più grande del primo, è un super-dono. Il cristiano non è e non si crede un giusto, ma un giustificato. San Luca ha centrato giustamente tutto il suo vangelo sulla misericordia del Padre che si manifesta nella vita del Figlio Gesù. Il credente in Gesù perdona perché è stato perdonato da Dio. Chi non perdona, non conosce né il Figlio né il Padre. L'unico peccato imperdonabile è quello di chi non perdona e ritiene di non dover essere perdonato per questo. La cecità di chi si ritiene giusto (cfr Lc 9,41) e non conosce il perdono da dare e da ricevere, è il peccato contro lo Spirito. Il cristiano non è perfetto, ma misericordioso; non è sicuro di non cadere, ma compassionevole verso chi è caduto. Per questo non condanna, ma perdona. La sola condizione per il perdono del Padre è il perdono dato ai fratelli. 
"Non c'indurre in tentazione". Non chiediamo a Dio di non essere tentati, ma di non cadere quando siamo tentati. Anche a questo riguardo la parola di Dio ci rassicura: "Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via di uscita e la forza per sopportarla" (1Cor 10,13). La tentazione più grande è quella di perdere la fiducia nel Padre. Il credente è tentato soprattutto dalla mancanza di fede nella misericordia di Dio: non riesce ad accettare che Dio sia così buono, soprattutto nei confronti degli altri. Ma la vittoria che ha vinto il mondo è proprio la nostra fede nell'infinita misericordia di Dio.
---------------

domenica 5 ottobre 2014

Commento al Vangelo del 5-10-2014, dom. 27^ t.ord. "A"

Dal Vangelo secondo Matteo (21,33-43) 
In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. 39Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo». E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi? Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti». 

COMMENTO AL VANGELO - P. LINO PEDRON 
Gesù interpella di nuovo i capi del popolo facendo loro capire che è il momento dei frutti, il momento nel quale Dio chiede conto della sua vigna. L'applicazione è chiara: dopo aver rifiutato i profeti, i responsabili d'Israele possono ancora cogliere l'ultima occasione per pentirsi: accogliere il Figlio, l'erede. La parabola presenta la morte del Figlio come un crimine premeditato. Dopo aver chiesto ai suoi interlocutori di tirare essi stessi le conclusioni della parabola (nel senso di Is 5,5-7), Gesù rende esplicito il loro giudizio. 
A chi sarà tolto il regno di Dio? Non a Israele, rappresentato dalla vigna, ma ai sommi sacerdoti e ai farisei, i quali "capirono che parlava di loro" (v.45). E a chi sarà dato questo regno? "A un popolo che lo farà fruttificare" (v.43). Per Matteo si tratta ancora di Israele, ma trasfigurato attraverso la presenza del Cristo risuscitato che adempie l'alleanza di Dio con gli uomini e fa loro produrre i suoi frutti. I servitori mandati dal padrone della vigna sono i profeti. Ricordiamo due passi dell'Antico Testamento: "Il Signore inviò loro profeti perché li facessero ritornare a lui. 
Essi comunicarono loro il proprio messaggio, ma non furono ascoltati" (2Cr 24,19); "Da quando i vostri padri uscirono dal paese d'Egitto fino ad oggi, ho mandato a voi in continuazione tutti i servitori, i profeti. Ma non fui ascoltato e non mi si prestò orecchio; anzi rimasero ostinati e agirono peggio dei loro padri" (Ger 7,25-26). Neemia 9,26 constata in sintesi: "I tuoi profeti li ammonirono, ma essi li uccisero e commisero grandi iniquità". 
Il Messia umiliato e ucciso diventerà, dal giorno della sua risurrezione, la pietra angolare della Chiesa, il suo fondamento incrollabile. Fin dall'inizio la parabola ha richiamato la nostra attenzione sui frutti. I frutti del regno di Dio coincidono con la fedeltà nell'amore attivo, che è la sintesi della volontà di Dio. Alla fine il giudizio sarà in base ai frutti dell'amore fedele e attivo e non sull'appartenenza a Israele o alla Chiesa.
-------

S. Faustina Kowalska

Faustina, l'apostola della Divina Misericordia, appartiene oggi al gruppo dei santi della Chiesa più conosciuti. Attraverso di lei il Signore manda al mondo il grande messaggio della Misericordia Divina e mostra un esempio di perfezione cristiana basata sulla fiducia in Dio e sull'atteggiamento misericordioso verso il prossimo.
Suor Maria Faustina nasce il 25 agosto 1905, terza di dieci figli, da Marianna e Stanislao Kowalski, contadini del villaggio di Głogowiec. Al battesimo nella chiesa parrocchiale di Świnice Warckie le fu dato il nome di Elena. Fin dall'infanzia si distinse per l'amore alla preghiera, per la laboriosità, per l'obbedienza e per una grande sensibilità alla povertà umana. All'età di nove anni ricevette la Prima Comunione; fu per lei un'esperienza profonda perché ebbe subito la consapevolezza della presenza dell'Ospite Divino nella sua anima. Frequentò la scuola per appena tre anni scarsi. Ancora adolescente abbandonò la casa dei genitori e andò a servizio presso alcune famiglie benestanti di Aleksandrów, Łódź e Ostrówek, per mantenersi e per aiutare i genitori.
Fin dal settimo anno di vita sentiva nella sua anima la vocazione religiosa, ma non avendo il consenso dei genitori per entrare in convento, cercava di sopprimerla. Sollecitata poi da una visione di Cristo sofferente, partì per Varsavia dove il 1 agosto del 1925 entrò nel convento delle Suore della Beata Vergine Maria della Misericordia. Col nome di Suor Maria Faustina trascorse in convento tredici anni nelle diverse case della Congregazione, soprattutto a Cracovia, Vilno e Płock, lavorando come cuoca, giardiniera e portinaia.
All'esterno nessun segno faceva sospettare la sua vita mistica straordinariamente ricca. Svolgeva con diligenza tutti i lavori, osservava fedelmente le regole religiose, era concentrata, silenziosa e nello stesso tempo piena di amore benevolo e disinteressato. La sua vita apparentemente ordinaria, monotona e grigia nascondeva in sé una profonda e straordinaria unione con Dio.
Alla base della sua spiritualità si trova il mistero della Misericordia Divina che essa meditava nella parola di Dio e contemplava nella quotidianità della sua vita. La conoscenza e la contemplazione del mistero della Misericordia di Dio sviluppavano in lei un atteggiamento di fiducia filiale in Dio e di misericordia verso il prossimo. Scriveva: “O mio Gesù, ognuno dei Tuoi santi rispecchia in sé una delle Tue virtù; io desidero rispecchiare il Tuo Cuore compassionevole e pieno di misericordia, voglio glorificarlo. La Tua misericordia, o Gesù, sia impressa sul mio cuore e sulla mia anima come un sigillo e ciò sarà il mio segno distintivo in questa e nell'altra vita.” (Q. IV, 7).
Suor Maria Faustina fu una figlia fedele della Chiesa, che essa amava come Madre e come Corpo Mistico di Cristo. Consapevole del suo ruolo nella Chiesa, collaborava con la Misericordia Divina nell'opera della salvezza delle anime perdute. Rispondendo al desiderio e all'esempio di Gesù offriva la sua vita in sacrificio. La sua vita spirituale si caratterizzava inoltre per l'amore all'Eucarestia e per una profonda devozione alla Madre di Dio della Misericordia.
Gli anni della sua vita religiosa abbondarono di grazie straordinarie: le rivelazioni, le visioni, le stigmate nascoste, la partecipazione alla passione del Signore, il dono dell'ubiquità, il dono di leggere nelle anime umane, il dono della profezia e il raro dono del fidanzamento e dello sposalizio mistico. Il contatto vivo con Dio, con la Madonna, con gli angeli, con i santi, con le anime del purgatorio, con tutto il mondo soprannaturale fu per lei non meno reale e concreto di quello che sperimentava con i sensi. Malgrado il dono di tante grazie straordinarie era consapevole che non sono esse a costituire l'essenza della santità. Scriveva nel Diario: “Né le grazie, né le rivelazioni, né le estasi, né alcun altro dono ad essa elargitola rendono perfetta, ma l'unione intima della mia anima con Dio. I doni sono soltanto un ornamento dell'anima, ma non ne costituiscono la sostanza né la perfezione. La mia santità e perfezione consiste in una stretta unione della mia volontà con la volontà di Dio.(Q. III, 28).
Il Signore scelse Suor Maria Faustina come segretaria e apostola della sua misericordia per trasmettere, mediante lei, un grande messaggio al mondo. “Nell'Antico Testamento mandai al Mio popolo i profeti con i fulmini. Oggi mando te a tutta l'umanità con la Mia misericordia. Non voglio punire l'umanità sofferente, ma desidero guarirla e stringerla al Mio Cuore misericordioso.(Q.V,155).
La missione di Suor Maria Faustina consisteva in tre compiti:
1.    Avvicinare e proclamare al mondo la verità rivelata nella Sacra Scrittura sulla Misericordia di Dio per ogni uomo.
2.    Implorare la Misericordia Divina per tutto il mondo, soprattutto per i peccatori, in particolar modo con le nuove forme di culto della Divina Misericordia indicate da Gesù: l'immagine di Cristo con la scritta: Gesù confido in Tela festa della Divina Misericordia nella prima domenica dopo Pasqua, la Coroncina della Divina Misericordia e la preghiera nell'ora della Divina Misericordia (ore 15). A queste forme di culto e anche alla diffusione dell'adorazione della Misericordia il Signore allegava grandi promesse a condizione dell'affidamento a Dio e della prassi dell'amore attivo per il prossimo.
3.     Ispirare un movimento apostolico della Divina Misericordia con il compito di proclamare e implorare la Misericordia Divina per il mondo e di aspirare alla perfezione cristiana sulla via indicata da Suor Maria Faustina. Si tratta della via che prescrive un atteggia-mento di fiducia filiale, l'adempimento della volontà di Dio e un atteggiamento di misericordia verso il prossimo.
Oggi questo movimento riunisce nella Chiesa milioni di persone di tutto il mondo: le congregazioni religiose, gli istituti secolari, i sacerdoti, le confraternite, le associazioni, le diverse comunità degli apostoli della Divina Misericordia e le persone singole che intraprendono i compiti che il Signore ha trasmesso a Suor Maria Faustina.
La missione di Suor Maria Faustina è stata descritta nel Diario che lei redigeva seguendo il desiderio di Gesù e i suggerimenti dei padri confessori, annotando fedelmente tutte le parole di Gesù e rivelando il contatto della sua anima con Lui. Il Signore diceva a Faustina: “Segretaria del Mio mistero più profondo, ... il tuo compito più profondo è di scrivere tutto ciò che ti faccio conoscere sulla Mia misericordia, per il bene delle anime che leggendo questi scritti proveranno un conforto interiore e saranno incoraggiate ad avvicinarsi a Me(Q. VI, 67). Quest'opera infatti avvicina in modo straordinario il mistero della Misericordia Divina.
Il Diario affascina non soltanto la gente comune ma anche i ricercatori che scoprono in esso una fonte supplementare per le loro ricerche teologiche.
Il Diario è stato tradotto in varie lingue, tra cui inglese, francese, italiano, tedesco, spagnolo, portoghese, russo, ceco, slovacco e arabo.
Suor Maria Faustina, distrutta dalla malattia e dalle varie sofferenze che sopportava volentieri come sacrificio per i peccatori, nella pienezza della maturità spirituale e misticamente unita a Dio, muore a Cracovia il 5 ottobre 1938 all'età di appena 33 anni.
La fama della santità della sua vita crebbe insieme alla diffusione del culto alla Divina Misericordia sulla scia delle grazie ottenute tramite la sua intercessione.
Negli anni 1965-67 si svolse a Cracovia il processo informativo relativo alla sua vita e alle sue virtù e nel 1968 iniziò a Roma il processo di beatificazione che si concluse nel dicembre del 1992.
Suor Faustina fu beatificata, in piazza S. Pietro a Roma, il 18 aprile 1993 e dichiarata santa, il 30 aprile 2000, da SanGiovanni Paolo II (Karol Józef Wojtyła, 1978-2005) che, in quell'occasione, stabilì, per la prima volta, la Festa della Divina Misericordia, da celebrarsi ogni anno nella prima domenica dopo Pasqua.
Le reliquie di S. Faustina si trovano nel santuario della Divina Misericordia a Cracovia-Łagiewniki ma, parte di esse, sono sparse nel mondo intero.
------------------