lunedì 27 aprile 2015

Nutriamoci della Parola di Dio di lunedì 27 aprile 2015

Dal Vangelo secondo Giovanni (10,1-10)
In quel tempo, disse Gesù: “In verità, in verità vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un'altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra per la porta, è il pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori. E quando ha condotto fuori tutte le sue pecore, cammina innanzi a loro, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei”. Questa similitudine disse loro Gesù; ma essi non capirono che cosa significava ciò che diceva loro. Allora Gesù disse loro di nuovo: “In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita a l'abbiano in abbondanza”.


COMMENTO AL VANGELO - P. LINO PEDRON
Questo brano è la continuazione del capitolo precedente. Il discorso sulla porta e il buon Pastore spiega e interpreta il significato dell'epilogo drammatico della professione di fede del cieco guarito.
Chi è espulso dalla sua comunità politica o religiosa, a motivo della sua testimonianza nel Signore Gesù, entra a far parte del gregge di Cristo e in esso trova vita abbondante e salvezza perfetta.
I capi del popolo giudaico con il loro comportamento si sono manifestati ladri e briganti (v.8), non pastori d'Israele. Il cieco guarito, scomunicato dai giudei, non vivrà come pecora senza gregge e senza pastore; egli ha già incontrato il buon Pastore e con la sua professione di fede è già entrato nell'ovile del Signore attraverso la porta che è Gesù.
L'espressione "In verità, in verità vi dico" (v.1) preannuncia rivelazioni molto importanti e profonde. L'immagine della porta (v.1) significa che per essere veri pastori del gregge di Dio bisogna passare per la porta che è Cristo. Egli infatti è il luogo della presenza di Dio, è la via d'accesso al Padre ed è il nuovo tempio definitivo.
Chi ignora Cristo e rifiuta la sua persona è un ladro e un brigante, cioè non può guidare le pecore ai pascoli della vita eterna, ma causa rovina e morte. In concreto, i giudei e i farisei, che non vogliono accettare la mediazione salvifica di Gesù, sono ladri e briganti. Così pure i ribelli, gli zeloti e i guerriglieri come Barabba, che hanno provocato sommosse popolari, non essendo entrati nella comunità d'Israele attraverso la porta stabilita da Dio, sono causa solo di rovina e di morte. Il vero pastore del gregge di Dio entra per la porta che è Gesù e si mette in rapporto con le pecore attraverso Gesù.
Con la frase "chiama le proprie pecore per nome e le conduce fuori" (v.3), Gesù fa capire la sua azione di condurre le sue pecore fuori dal recinto della sinagoga. Il cieco guarito, che è stato espulso dalla comunità giudaica, in realtà è stato condotto fuori dalla sinagoga dal buon Pastore ed è stato introdotto nell'ovile di Cristo che è la Chiesa.
Come Dio ha condotto Israele fuori dall'Egitto, così Gesù si mette alla testa del suo gregge per farlo uscire dal giudaismo. Con questa azione la Chiesa è separata radicalmente dalla sinagoga.
Data l'incomprensione delle sue parole enigmatiche, Gesù riprende le immagini precedenti e le chiarisce: la porta delle pecore è lui, i ladri e i briganti sono i falsi pastori d'Israele. Gesù è il mediatore per avere accesso al gregge di Dio, è la via per giungere al Padre (Gv 14,6), è la strada obbligata per mettersi in comunione con le sue pecore.
La porta, nel linguaggio biblico, significa anche la città o il tempio (cfr Sal 87,1-2; 112,2; ecc.). Gesù quindi proclama di essere il luogo dove si trova la salvezza. Egli è stato mandato dal Padre nel mondo affinché l'umanità peccatrice fosse salvata per mezzo di lui (Gv 3,17). Perciò le pecore che vogliono avere la vita eterna in pienezza non possono fare a meno della sua azione mediatrice: devono entrare nella vita eterna per la porta che è Cristo.
Questa mediazione salvifica non è qualcosa di oppressivo, ma il mezzo per godere perfetta libertà e per sperimentare la pienezza della vita.
Il Figlio di Dio non è venuto nel mondo per uccidere e per portare alla rovina l'umanità, come fanno i falsi pastori, ma per salvare tutti.
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Richiesta preghiere 26 aprile 2015

Carissimi amici e amiche del Gruppo **.
Oggi 26 aprile la Chiesa festeggia la Madonna del Buon Consiglio, e la domenica del Buon Pastore.
Anch'io oggi dovrei essere contenta e festeggiare il mio compleanno: 74 anni.
Invece sono qui a chiedervi una preghiera, perché mi sento in grande difficoltà. Ho avuto un anno passato molto pesante, dove sono successe alcune cose che hanno toccato il mio cuore facendolo soffrire, senza speranza, altre, nella mia famiglia, che mi hanno reso la vita difficile, per le quali avete già pregato, ed ultima la morte improvvisa di mia mamma (13 aprile scorso) per la quale avete anche già pregato, che ha lasciato in me un qualcosa di indefinibile. Uno stato di prostrazione che mi sta portando nel baratro della depressione. Un sentimento-non sentimento dovuto alle circostanze di una vita dove, fin dalla nascita, il Signore ha permesso che la mia piccola croce, quella che ognuno di noi deve portare, fosse basata sugli affetti. Una croce che sto portando tutt'ora e che in certi momenti mi sembra del tutto inadeguata alle mie forze. Mi sento debole, fragile e tanto sola, per questo vi chiedo preghiere, perchè questo stato di sofferenza mi sta facendo paura. A momenti credo di non farcela più. Aiutatemi con la vostra preghiera, affinché il mio cammino verso il Signore, così irto in certi momenti da ostacoli e sofferenze che mi sembrano insormontabili, possa incontrare un momento di serenità. Non chiedo, fratelli, che il Signore mi tolga la sofferenza, ma chiedo solo la forza per accettarla e sopportarla con la serenità e che la fiammella della fede, che arde sempre nel mio cuore, non abbia mai a spegnersi.
"Il Signore è il mio Pastore, non manco di nulla....." sono le parole con le quali inizia il Salmo 23, uno dei Salmi che preferisco recitare..... ma oggi mi sento tremendamente nella "valle oscura". soprattutto in una valle dove non c'è posto per l'amore, ma solo dolore. Pregate per me.
Vi ringrazio di cuore. Ardea da Trieste.
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Il buon Pastore e il mercenario

Commento al Vangelo: IV Domenica di Pasqua 2015 B (Gv 10,11-18)

Il Messia era stato caratterizzato dai profeti come il Pastore del suo popolo (cf Is 40,11; Ez 34,23; 37,24; Zc 13,7, ecc.), e Israele era stato chiamato gregge del Signore (cf Ez 34,5; Mic 7,14; Zc 10,3, ecc.). Gesù Cristo affermò solennemente che questi vaticini si erano avverati in Lui, proclamandosi pastore, anzi, buon pastore non solo del popolo ebreo ma di tutti gli altri che Egli avrebbe uniti al primo suo gregge, formandone un solo ovile sotto un solo pastore. Dal modo com’Egli parlò, traspare tutta la sua tenerezza verso le anime e, dal contrapposto che fece tra il buon pastore e il mercenario, tutto il dolore che provava non solo per i falsi pastori del popolo ebreo, ma per i pastori falsi e mercenari di tutti i secoli. Io sono il buon pastore – esclamò –; era venuto per dare la vita e per darla abbondantemente, e la dava alle sue pecorelle non solo pascolandole, ma immolandosi per loro; perciò soggiunse: Il buon pastore dà la vita per le sue pecorelle e, secondo l’espressione del testo greco, dà la vita in prezzo di redenzione.
Egli era l’unico pastore che pascolando si offriva, e salvando dalla morte le sue pecorelle s’immolava per esse. Nell’Eucaristia donò se stesso, offrendosi al Padre e immolandosi incruentamente, e sulla croce s’immolò cruentamente. Per confermare e rendere vivo questo grande pensiero, Gesù Cristo ritornò alla similitudine dell’ovile e delle pecorelle, e disse: Il buon pastore dà la vita per le sue pecorelle; il mercenario, invece, è chi non è pastore, e al quale non appartengono le pecorelle; egli, quando vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo rapisce e le disperde. Il mercenario poi scappa perché è mercenario e non gl’importa delle pecorelle.
I pastori di pecore conducono una vita solitaria nei campi e l’unica loro compagnia sono quei placidi animali che conducono al pascolo. Essi li amano come loro proprietà, e quasi come parte della loro vita; la docilità che esse hanno ad ogni loro cenno ispira ad essi una grande tenerezza, e la loro debolezza di fronte ai pericoli li rende solleciti nel difenderle. Un gregge è come una famiglia di cui il pastore si sente il capo, e perché le pecorelle lo riconoscono e ne ascoltano la voce, egli se ne sente quasi padre, e non esita ad affrontare dei gravi pericoli per difenderle, soprattutto contro le insidie dei lupi. Nelle solenni solitudini dei campi non c’è forse una scena più soave e commovente come quella di un gregge che pascola, e del pastore che lo vigila. Raccolte a gruppi, brucano le erbe, corrono di qua e di là, si riposano, e il loro belare è come un’armonia serena che si disperde lontano nelle ampie solitudini verdi e tranquille.
Gesù Cristo non poteva scegliere una similitudine più bella per significare l’unione delle anime a Lui, e la sua infinita tenerezza nel pascolarle.
L’arte ha raccolto in mille modi questa soave parabola, e ne ha formato innumerevoli quadri, dai quali traspare sempre la tranquilla pace delle anime che sono condotte ai pascoli da Gesù, e il suo infinito amore nel pascolarle. Egli è il buon Pastore, e le anime per essere guidate da Lui debbono essere docili, semplici, silenziose e affettuose come pecorelle. Egli le ama, le guida, le difende, le nutre e dà la vita per loro, Vittima perenne di redenzione e di amore sugli altari. È questa la sua sublime regalità, tanto diversa da quella dei reggitori di popoli, solleciti della loro gloria e del loro tornaconto. È questa la sua amorosa paternità per le anime, tanto diversa da quella di coloro che le reggono come mercenari, e che al primo pericolo che le minaccia fuggono e le lasciano in balia di quelli che le uccidono. Un pastore mercenario non ama le pecorelle, ma la paga che guadagna per il servizio che presta; il gregge anzi, gli è di fastidio, perché rappresenta il peso della sua giornata e, quando si trova di fronte ai lupi che lo assalgono, fugge per mettersi in salvo, non avendo nessun interesse a salvare le pecorelle.
Tali erano i pastori d’Israele, e tali sono i pastori degeneri che riguardano il ministero come un’occupazione qualunque e una fonte di guadagno. Non parliamo, poi, dei cosiddetti protestanti e di quelli di altre sette, i quali non solo sono mercenari, pagati per strappare le anime alla Chiesa, ma sono falsi pastori, ladri e assassini che non entrano nell’ovile per la porta, non hanno alcun mandato di reggere le anime e rappresentano essi medesimi i lupi rapaci che le uccidono e le disperdono.
Dopo aver detto che Egli è il buon pastore perché dà la vita per le pecorelle, Gesù Cristo soggiunge che Egli ha tanta premura per le sue pecorelle che le conosce ad una ad una, si comunica loro, ed esse lo conoscono. Come il Padre, conoscendo se stesso, genera il Figlio e gli comunica la vita infinita, e come il Figlio conosce il Padre, dandogli una lode infinita, così Gesù Cristo conosce le sue pecorelle, vivificandole ad una ad una, come se fosse tutto e solo per ciascuna, e dà la vita per loro, ad una ad una, di modo che ogni sua pecorella ottiene in pieno il frutto e i benefici della redenzione. Le pecorelle, poi, vivificate da Lui, lo amano perché lo conoscono e lo glorificano. C’è dunque, tra Gesù buon pastore e le sue pecorelle, un’unione d’amore che Gesù stesso paragona all’unione del Padre con Lui Verbo eterno. Egli dona loro la vita, ed esse lo glorificano e lo amano; Egli le cura singolarmente, una ad una, ed esse lo amano d’amore singolare.
Gesù parlava agli Ebrei, ed essi avrebbero potuto capire che essi solo erano i privilegiati, eletti per essere il suo ovile, e per averlo come Pastore; Egli, invece, doveva chiamare al suo Cuore tutte le genti della terra, e perciò soggiunse: Ho altre pecorelle che non sono di quest’ovile; anche quelle bisogna che io conduca; esse ascolteranno la mia voce, e si farà un solo ovile e un solo pastore. Egli chiamò i pagani alla fede, e alla fine dei tempi chiamerà alla Chiesa gli Ebrei dispersi, formando così di tutte le nazioni un solo ovile sotto un solo pastore, il Papa. Dopo un periodo di apostasia generale, Gesù, con l’effusione di nuove grazie, chiamerà tutti i popoli al suo Cuore, e Israele finalmente conoscerà la sua voce, lo crederà come Messia e Redentore, si unirà alla Chiesa Cattolica, e si formerà così un solo ovile di tutte le genti, in una grande glorificazione di Dio su tutti i cuori. Questa glorificazione sarà frutto del Sacrificio della croce, e del rinnovarsi di questo Sacrificio nell’Eucaristia, e il Sacrificio si realizzerà perché Gesù si offrirà completamente alla divina volontà, dando la vita sulla croce, riprendendola nella risurrezione, e rinnovandone, poi, l’offerta sugli altari. Per questo Gesù soggiunse: Il Padre mi ama perché io do la vita per riprenderla di nuovo.Nessuno me la toglie, ma io la dono da me stesso, e ho il potere di darla e il potere di prenderla di nuovo. Questo comandamento ho avuto dal Padre mio.


Ai pastori d’Israele che lo perseguitavano in nome della loro autorità, Gesù, dunque, annuncerà che Egli solo era il buon pastore, e che la loro autorità era tramontata. Ad essi, che avevano congiurato di ucciderlo, dichiarò che sarebbe morto solo per propria elezione, e che questo era conforme al piano della divina volontà. Annunciò la costituzione del nuovo suo ovile, formato dalle genti tutte della terra, e abbatté così, per sempre, le barriere che avevano separato Israele dagli altri popoli. Egli, prendendo la croce, avrebbe preso in mano lo scettro della sua regalità e il vincastro del suo pastorale ministero d’amore, portando al pascolo le sue pecorelle.


Padre Dolindo Ruotolo
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sabato 25 aprile 2015

Messaggio di Medjugorje del 25 aprile 2015

Cari figli! 
Sono con voi anche oggi per guidarvi alla salvezza. 
La vostra anima è inquieta perché lo spirito è debole e stanco da tutte le cose terrene. 
Voi figlioli, pregate lo Spirito Santo perché vi trasformi e vi riempia con la sua forza di fede e di speranza perché possiate essere fermi in questa lotta contro il male. 
Io sono con voi e intercedo per voi presso mio Figlio Gesù.
Grazie per aver risposto alla mia chiamata.
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Nutriamoci della Parola di Dio di sabato 25 aprile 2015

Dal Vangelo secondo Marco (16,15-20)
In quel tempo, apparendo agli Undici, Gesù disse loro: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato. E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti, e se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno”. Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio. Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l'accompagnavano.

COMMENTO AL VANGELO - P. LINO PEDRON
La finale del vangelo di Marco insiste sulla missione di portare il vangelo in tutto il mondo, unendo strettamente la testimonianza della parola a quella delle opere, dei segni.
Con l'esortazione alla missione universale si congiunge l'affermazione che per la salvezza sono richiesti la fede e il battesimo. Inoltre agli annunciatori del vangelo viene promesso che la loro predicazione missionaria sarà sostenuta e confermata dai miracoli compiuti da Gesù risorto.
La trasmissione delle parole di Gesù è al centro del testo e ha lo scopo di fare cristiani tutti i popoli. La missione, l'andare da tutti gli uomini, è un incarico che va capito bene.
Se la missione è trasmettere agli uomini la parola di Gesù e le sue direttive per fare di loro, mediante il battesimo, dei discepoli, ciò esclude due malintesi.
Il primo è il malinteso della rivendicazione del potere politico. Una concezione utopistica è quella di W. Soloviev che ritiene il regno di Dio come uno stato teocratico in questo mondo, e vede questa concezione radicata nella volontà di Gesù. Sulla terra vi sarebbe un unico potere, e questo non apparterebbe a Cesare, ma a Gesù Cristo.
L'altro malinteso è la relativizzazione dell'incarico missionario, che arriva a sostenere che il compito dell'evangelizzazione consiste nell'aiutare i buddisti a diventare buddisti migliori, i musulmani a diventare più ferventi musulmani, e via dicendo.
Il dialogo necessario con le religioni mondiali non elimina la necessità dell'annuncio e della testimonianza, della fede cristiana e del battesimo. E' il Cristo risorto al quale è stato dato ogni potere in cielo e in terra (cfr Mt 18,28), che manda i cristiani a predicare il vangelo ad ogni creatura.
La missione è necessaria per volontà di Dio, che ha risuscitato Gesù Cristo dai morti.
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Nutriamoci della Parola di Dio di venerdì 24 aprile 2015

Dal Vangelo secondo Giovanni (6,44-51)
In quel tempo, Gesù disse alle folle: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: ''E tutti saranno ammaestrati da Dio''. Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non che alcuno abbia visto il Padre, ma solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità vi dico: chi crede ha la vita eterna.
Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.

COMMENTO AL VANGELO - P. LINO PEDRON
La ragione ultima della fede si trova nell'attrazione del Padre perché gli uomini aderiscano al Figlio suo. La citazione dei profeti: "E tutti saranno ammaestrati da Dio" potrebbe ispirarsi a Ger 31,33-34 e a Ez 36,23-27, ma il testo più vicino a quello citato da Giovanni è Is 54,13: "E porrò ... tutti i tuoi figli ammaestrati da Dio". Anche qui, come in Gv 6,31, la citazione non sembra trovarsi alla lettera nell'Antico Testamento. Giovanni adatta il testo alle sue prospettive teologiche, tra le quali spicca l'universalismo della salvezza. Egli infatti non parla solo di "tutti i figli di Gerusalemme", ma di " tutti" semplicemente, interpretando la nuova alleanza in prospettiva universalistica.
La fede è dono di Dio e affonda le sua radici nell'azione divina del Padre. Quindi crede in Gesù solo chi " ha ascoltato e imparato dal Padre" (v. 45).
Gesù, dopo aver detto che il motivo ultimo della fede sta nell'attrazione del Padre, soggiunge: "Chi crede ha la vita eterna" (v. 47). La vita eterna dipende dalla fede. E la fede consiste nell'ascoltare e mangiare Gesù, che è il pane celeste che fa vivere eternamente.
Dopo la solenne proclamazione di essere il pane della vita, Gesù fa il confronto tra la manna mangiata dai padri nel deserto e il pane che è la sua persona. La manna non procurò l'immortalità perché tutti nel deserto morirono, compreso Mosè, ma chi mangia Gesù non morirà mai.
L'azione del mangiare indica l'interiorizzazione della parola del Figlio di Dio e l'assimilazione della sua persona con una vita di fede profondissima. Il mangiare il pane vivente che è Gesù, significa far propria la verità del Cristo, anzi la persona del Cristo che è la verità, ossia la rivelazione piena e perfetta del Padre.
Nel v. 51 Gesù aggiunge un nuovo elemento che preannuncia la tematica centrale dell'ultima sezione del discorso (vv. 53-58): il pane della vita è la carne di Gesù per la vita del mondo. Il pane del cielo è la carne di Gesù, ossia la sua persona sacrificata per la salvezza dell'umanità con la passione e morte gloriosa.
L'amore di Dio per gli uomini raggiunge la sua massima espressione nella morte di Gesù in croce: sulla croce egli dona tutto se stesso per il mondo.
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Gesù Cristo appare agli apostoli/2

Commento al Vangelo: III Domenica di Pasqua "B" 19.04.2015  (Lc 24,35-48)

Rimessisi un po’ dall’emozione, i due discepoli raccontarono quanto era loro accaduto per strada e come avevano riconosciuto Gesù nella frazione del pane. Forse il loro racconto cominciò a suscitare diffidenze, come avviene spesso quando si riferisce a gente incredula un fatto soprannaturale, quando Gesù, improvvisamente, stando chiusa la porta entrò in mezzo a loro ed più soggetto esclamò: La pace sia con voi; sono io, non temete. Il suo Corpo glorioso, non alle leggi della materia, non conosceva ostacoli, e molto più di quel che non faccia un’onda elettrica, passò attraverso le mura e la porta. I congregati, già impressionati da quello che ascoltavano dai discepoli di Emmaus, ne furono turbati e atterriti, credendo di vedere uno spirito.
Se avessero creduto a quello che dicevano i discepoli, non avrebbero supposto di trovarsi di fronte ad un fantasma. Gesù, con una grande amorevolezza, per toglierli dall’angustia, soggiunse: Perché vi turbate, e quali pensieri sorgono nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi, sono proprio io; palpatemi e guardate, perché lo spirito non ha carne ed ossa come vedete che ho io. Detto questo, mostrò loro le mani e i piedi e li fece toccare loro, ma essi non crederono ancora, benché avessero il cuore pieno di gioia al divino contatto.
Questo ci fa vedere in quale stato di miscredenza ancora si trovassero e quanto fitte fossero le tenebre del loro spirito. Toccavano con mano, vedevano con gli occhi e non credevano. È terribile! Erano più increduli dello stesso san Tommaso, la cui mancanza di fede è diventata proverbiale; il loro intelletto era oscurato completamente, poiché rimaneva in loro ancora l’idea che il Maestro non avesse potuto risorgere.
Così fanno i miscredenti per partito preso: dicono di voler tutto osservare e controllare e, quando toccano con mano la verità, neppure credono, perché il loro cuore è guasto e annebbiato. Non cercano il motivo della credibilità ma quello della miscredenza, e non cedono di fronte all’evidenza, rinnegando praticamente lo stesso positivismo balordo per il quale dicono di non credere. Se si umiliassero e riconoscessero la loro ignoranza, riavrebbero la luce della verità e quella della fede, ma sono ostinati e non vogliono credere.
Di fronte all’ostinazione degli apostoli Gesù, lungi dall’abbandonarli come avrebbero meritato, ricorse ad un altro espediente: Essi erano fuori di loro per la gioia, come dice il Sacro Testo; non credevano ai loro occhi e al loro tatto, non per ostinazione di malizia, ma per la stessa sorpresa di ciò che vedevano; erano come fuori della realtà della vita, e non sapevano trarre la logica conseguenza di quello che vedevano; perciò Gesù, richiamandoli alla realtà e distraendoli da quello stupore che impediva loro di riflettere, esclamò: Avete qui qualche cosa da mangiare? Ed essi gli presentarono un pezzo di pesce arrostito e un favo di miele; Gesù ne mangiò alla loro presenza, e quello che avanzò lo diede loro perché ne avessero mangiato e l’avessero mostrato agli altri come testimonianza della sua risurrezione.
Gesù Cristo, avendo un corpo reale poteva mangiare, benché fosse glorioso. Il cibo penetrò veramente nello stomaco, e si mutò interamente in sua sostanza, senza bisogno di digestione. Egli si degnò di partecipare alla nostra vita per santificarla e, mentre prima della Passione aveva mangiato la Pasqua con le erbe amare, simbolo del pellegrinaggio terreno, dopo la risurrezione mangiò il favo di miele, simbolo delle dolcezze della gloria eterna.
Nella Cena, mangiò l’Agnello pasquale, figura di Lui stesso immolato, e dopo la risurrezione mangiò il pesce arrostito, simbolo del suo amore eucaristico; l’agnello vive nella terra, simbolo dell’anima pellegrina, e il pesce nel mare, simbolo dell’anima beata dell’immensità della gloria di Dio, nella quale è come sommersa per l’eterna beatitudine.
Di fronte all’evidenza di veder consumato il cibo che gli avevano dato, gli apostoli crederono, come appare chiaramente dal colloquio che Gesù ebbe con loro; ma nel loro spirito c’erano ancora delle tenebre sulla sua Passione e Morte, ed Egli le dissipò, richiamando la loro attenzione sul compimento delle profezie che lo riguardavano, da Lui già annunciate loro prima di patire. E perché avessero potuto intendere appieno quanto di Lui era stato scritto nella Legge di Mosè, nei profeti e nei salmi, cioè in tutta la Scrittura, ne comunicò loro l’intelligenza con una grazia particolare, perché avessero potuto intenderle e insegnarle agli altri, evangelizzando tutte le genti.
San Luca sintetizza, in queste poche parole, le raccomandazioni e le istruzioni che Gesù Cristo fece agli apostoli nei quaranta giorni nei quali rimase con loro, prima di congedarsi definitivamente e ascendere al cielo. Fu in questi trattenimenti che Egli promise lo Spirito Santo, e li esortò a trattenersi in Gerusalemme, per prepararsi a quella grande grazia che doveva trasformarli in messaggeri di misericordia, di perdono e di pace per tutta la terra.
Alla fine dei quaranta giorni, li condusse prima a Betania, per congedarsi da Marta, da Maria e da Lazzaro, e poi di là sul monte Oliveto, dove li benedisse e, sollevatosi verso il cielo, sparì dai loro occhi, assunto nella gloria.
Fu quella l’ultima e definitiva prova che diede della sua divinità, e per questo gli apostoli e quelli che erano con loro lo adorarono, riconoscendolo pienamente Figlio di Dio.
         Ritornarono poi a Gerusalemme pieni di gaudio, per le grazie ricevute, delle quali, ora, valutavano tutta la magnificenza, e stavano nel tempio continuamente, lodandone e benedicendone Dio. Essi, infatti, si svegliarono come da un sonno e, accorgendosi di non aver apprezzato abbastanza gli immensi doni ricevuti da Dio, cercarono di riparare alla loro manchevolezza, andando a ringraziarlo continuamente nel tempio.
Padre Dolindo Ruotolo

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lunedì 13 aprile 2015

Gesù Cristo appare agli apostoli

Commento al Vangelo della II Domenica di Pasqua 2015 "B" 12.04.2015 (Gv 20,19-31)
Dopo che Pietro e Giovanni tornarono dal sepolcro, e dopo il messaggio delle pie donne e della Maddalena, cominciò a nascere negli apostoli un po’ di fede. Non era la fede profonda e completa di chi crede a Dio che rivela, riguardando come somma ragione la sua autorità, ma era come l’alba di questa fede, era come il rinascere di una speranza che sembrava già morta, era come il primo rinverdirsi d’un ramo spezzato dalla tempesta. Questo poco di fede, più naturale che soprannaturale in quel momento, fu la disposizione che rese loro possibile la grazia della rivelazione del Signore.
La paura è sempre una pessima consigliera e, quando diventa panico, cerca ogni scappatoia per sottrarsi al pericolo; se non in tutti gli apostoli e discepoli, almeno in alcuni, subentrò un desiderio occulto di non pensare più al passato, di abbracciare un tenore comune di vita, e ritornare alle loro occupazioni; ne abbiamo un esempio nell’episodio dei discepoli di Emmaus, del quale parla san Luca (24,13-35). Il timore si accrebbe negli apostoli per le stesse notizie che riguardavano la risurrezione. Certamente il Corpo di Gesù non c’era più nel sepolcro, e questo fece loro temere che le autorità li accusassero di averlo essi sottratto, iniziando contro di loro una persecuzione; perciò stavano guardinghi e tenevano ben chiuse le porte dove erano congregati. Ora, mentre erano insieme, nella sera della stessa domenica della risurrezione, Gesù Cristo, senza bisogno di farsi aprire, entrò improvvisamente in mezzo a loro e, fermatosi, disse: La pace sia con voi.
Il momento fu solenne, ed è difficile, per noi, formarcene una pallida idea.
Il Corpo di Gesù, essendo risorto, era glorioso, e aveva quella dote che i teologi chiamano sottigliezza, per la quale poteva attraversare gli ostacoli. Oggi questa dote è di più facile comprensione, poiché ne abbiamo qualche analogia nelle onde radiofoniche e nei raggi catodici che attraversano senza difficoltà ostacoli insormontabili ai corpi. Il Corpo glorioso è come spiritualizzato, è come fluido, tutto luce e tutto energia, e può attraversare gli ostacoli molto più che un’onda di radio. Gesù Cristo apparve nella sera, quando già cominciavano le tenebre, tutto rifulgente di luce nelle penombre della stanza dov’erano gli apostoli. Non irradiava luce quasi fosse un sole, come può arguirsi da apparizioni di esseri ultramondani, ma era Egli, come un corpo tutto splendente, luce placidissima che non abbagliava.
Gesù, ritto nella sala, vestito non di panni ma di gloria, era la bellezza purissima che elevava l’anima a Dio, diffondeva gioia, pace, amore, e per questo il Sacro Testo dice con parola mirabilmente sintetica: I discepoli, vedendo il Signore, gioirono. Era la gioia della vita piena che emanava da Colui che era la vita; era la pace che diffondeva Colui che era la verità, calmando le ansie oscure dell’anima; era la contentezza che dava Colui che era come faro luminoso, dal quale veniva tracciata la via del Cielo.
Gioirono i discepoli nella gioia della purezza che spirava dal Corpo divino e, in quella gioia, si estinsero in loro le povere fiamme della carne che ustionano fastidiosamente il cuore e lo fanno stare tra le spine. Non c’è gioia più grande della purezza integrale: è una gioia che nasce dall’amore di Dio che si trasfonde nell’anima come luce di verità, come calore di carità, e come complesso di bontà. In noi c’è sempre qualche cosa d’impuro, e qualunque gioia spirituale è sempre turbata dalla nostra miseria; gli apostoli, nel vedere Gesù, si sentirono puri e purificati, poiché Egli diffuse in loro una grande serenità, e dicendo: La pace sia con voi, li avvolse in quella pace che spira da Dio, Verità, Sapienza e Amore eterno.
Pace, tranquillità d’ordine, serena sicurezza, riposo d’amore nell’eterno Amore!

A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi…
Gioirono i discepoli, ma nella gioia stessa provarono un senso di timore per le colpe che avevano commesse, e per la sproporzione che sentivano col Signore glorioso; per questo, Gesù, rassicurandoli, ripeté le dolci e vivificanti parole: La pace sia con voi e, sollevandoli dalla loro profonda umiliazione interiore, soggiunse: Come il Padre ha mandato me così io mando voi.
Con delicatezza divina e con divina signorilità non volle che avessero sentito il peso della loro inferiorità innanzi a Lui glorioso; gli ripugnava quasi che avessero potuto stabilire un paragone fra loro peregrinanti e Lui trionfante e, anticipando le grazie della Pentecoste e il momento nel quale diede loro la pienezza della missione per la quale li aveva scelti, soffiò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi li riterrete saranno ritenuti. Gesù Cristo non fece loro una promessa, ma diede loro veramente una comunicazione attuale dello Spirito Santo, alla quale era annessa la facoltà di rimettere i peccati.
Dicendo: A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi li riterrete saranno ritenuti, Gesù Cristo diede agli apostoli e ai loro successori la potestà giudiziale di rimettere i peccati nel sacramento della Penitenza, com’è chiarissimo dal Testo, e come dichiarò esplicitamente il Concilio di Trento (Sess. XIV, can. 3). Tutti i peccati, anche i più gravi, possono essere rimessi, ma debbono essere sottoposti al giudizio del sacerdote con la confessione, perché il rimetterli o ritenerli non è un atto di capriccio, ma è una sentenza ragionevole che dipende da un giusto giudizio; tale giudizio non può farsi se il peccatore non confessa i suoi peccati e se, confessandoli, non mostra le disposizioni interiori che lo animano.
Con divina delicatezza Gesù anticipò agli apostoli la facoltà di rimettere i peccati, proprio nel momento nel quale essi si sentivano maggiormente peccatori, rendendoli giudici quando essi si aspettavano di essere giudicati. Egli volle rialzarli dall’umiliazione e, nel medesimo tempo, volle dare loro i tesori della misericordia quando essi maggiormente si sentivano poveri e peccatori, affinché avessero compatito le miserie altrui. L’uomo ha cercato tutelare l’ordine sociale con le leggi e i tribunali penali, con le carceri e persino con la morte, ma non ha potuto far nulla per mutare l’anima del delinquente, nonostante tutte le assistenze sociali ai carcerati. Solo Dio poteva erigere un tribunale di amorosa misericordia che rinnova il cuore, dona la pace, eleva in alto il peccatore e lo muta in un giusto e persino in un santo.

Gesù Cristo risana Tommaso dalla sua incredulità
Quando Gesù apparve agli apostoli, Tommaso non era con loro. Di carattere più indipendente, di volontà più ostinata, forse aveva creduto inutile starsene rinchiuso nel Cenacolo, o forse anche era andato a sbrigare qualche faccenda. Era colui che meno aveva creduto al messaggio delle pie donne e di Maria Maddalena, e può darsi che, sentendone parlare e discutere, si fosse così disorientato e urtato, da uscirsene. Per lui ormai era certo che Gesù era morto che le speranze riposte in Lui erano fallite, e che ostinarsi ad attendere ancora eventi che gli sembravano ormai impossibili era lo stesso che esporsi alla derisione e dar di volta al cervello. Il suo disorientamento si accrebbe quando, al ritorno, seppe dagli altri apostoli dell’apparizione di Gesù.
È evidente che gli dovettero raccontare tutto minutamente, e che, al suo ostinarsi nel non credere, dovettero ripetutamente fargli notare che essi avevano visto proprio le ferite delle mani, dei piedi e del costato, e che non c’era dubbio che fosse proprio Lui. Ma Tommaso credeva di scorgere nella gioia, nell’entusiasmo e nella certezza dei compagni, i segni di un’esaltazione fantastico, e perciò, alle loro insistenti affermazioni, rispose: Se non vedo nelle sue mani la ferita dei chiodi, e se non metto il mio dito al posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non credo.

Gesù appare di nuovo, presente Tommaso, che è guarito dalla sua incredulità
Otto giorni dopo, i discepoli erano di nuovo tutti raccolti nella casa, e Tommaso era con loro. Forse pregavano; certo erano in un momento di raccoglimento nel quale era più facile la mozione della grazia.
Crediamo che Maria si trovasse con gli apostoli, e che fu proprio Lei ad implorare la grazia della conversione per Tommaso. Come Madre amorosa che prendeva cura attiva dei figli affidatile da Gesù, conobbe o fu addirittura presente al disorientamento di Tommaso, e supplicò il Figlio suo divino a sanarlo. A Lei dovette suscitare tanto dolore l’incredulità di un apostolo, e vide in essa la rappresentanza dell’incredulità dei diffidenti e presuntuosi nella fede.
Quale gioia per gli apostoli e quale sorpresa per Tommaso! Egli si voltò, lo vide, lo riconobbe: era Lui! Allibì per un momento, temette, si turbò, ma Gesù gli effuse subito nel cuore la serena tranquillità, dicendo: La pace sia con voi. La tracotanza di Tommaso fu in un momento fiaccata, e nel suo cuore cominciò a sorgere un tumulto d’amore e di umiliazione. Gesù lo chiamò a sé, e lo invitò a mettere il dito nelle sue piaghe e la mano nel suo costato, dicendogli con infinito amore: Non voler essere incredulo ma fedele.
Il Sacro Testo non dice se Tommaso abbia messo il dito e la mano nelle piaghe di Gesù, ma noi crediamo che il Redentore ve l’abbia costretto. A quella vista, a quel contatto, Tommaso si prostrò e, adorandolo, disse: Signor mio e Dio mio. Non poté dire altro: ilcuore gli scoppiava dal dolore e dall’amore, la fede divampava in lui, l’abbandono era pieno nel suo Redentore e nel suo Dio. Ma Gesù soavemente lo rimproverò, per completare la grande lezione che voleva dare ai secoli futuri, dicendo: Perché hai visto, o Tommaso, hai creduto; beati coloro che non hanno visto e hanno creduto. Non è fede il credere perché si vede, ma il credere per l’autorità di Dio che parla per la Chiesa; è solo allora che l’anima riposa nella verità. Ogni propria constatazione può essere fallace, ogni esperienza personale può essere offuscata dalla fantasia, ogni propria persuasione può mutarsi col mutarsi delle circostanze che l’hanno formata; solo la parola di Dio è sicura, solo la voce della Chiesa ce la può accertare e solo credendo ciò che non si vede e non si tocca con mano si può dire di aver fede e di credere in verità veramente divine.

Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto
Siamo in tempi di stolto positivismo, nel quale si vuol tutto vedere e toccare con mano, trascurando le positivissime basi della verità, della sapienza e della vita. Tommaso dolorosamente ha fatto scuola, e i suoi seguaci l’hanno superato; egli voleva toccare con mano Gesù, essi si restringono alla materia e vogliono toccare solo quello che sembra ad essi vita. Si è detto che giovò più san Tommaso alla nostra fede con la sua incredulità che gli apostoli con la loro fede, perché la sua incredulità fu l’occasione di una solenne conferma della risurrezione di Gesù Cristo.
È una frase che bisogna intendere con un granello di sale. L’incredulità non giova mai, neppure quando dà occasione ad una maggiore chiarificazione della verità, certo non per suo merito.
La chiarificazione viene dalla fede della Chiesa, non dalla provocazione della miscredenza. In realtà, se san Tommaso fosse stato fedele e avesse creduto, la sua fede avrebbe diffuso, nei secoli, un’onda di fede. Egli, invece, è stato preso quasi come vessillo di quelli che non credono al soprannaturale, e che pretendono di vedere e scrutare tutto.
Chi non ha, nella sua vita, un momento di stolta titubanza innanzi alla verità della fede? Chi non si lascia qualche volta turlupinare da satana che presenta come tenebre ciò che è luce? Chi non desidera, almeno qualche volta, toccare con mano la realtà dei misteri? Umiliamoci e, ricordando le parole di Gesù: Beati coloro che non hanno visto e hanno creduto, cerchiamo questa santa beatitudine della fede che non vede e crede. Gesù non disse: Beati coloro che non vedono e credono, ma disse: Beati coloro che non hanno visto e hanno creduto, indicando così, chiaramente, che la beatitudine di chi crede senza vedere si riepiloga in Cielo, dopo la vita presente; allora quelli che in vita non hanno visto e hanno creduto, avranno la gioia immensa di vedere tutto nel lume della gloria, in Dio stesso. La fede cieca, anche sulla terra dà la gioia della pace, poiché l’anima che crede riposa in Dio; ma la gioia della vita vera è riservata nell’eternità, dove tutto è chiaro, e dove si gode, contemplando la verità e l’armonia di ciò che si è creduto in terra.
Gesù Cristo disse: Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto, alludendo forse anche ai santi dell’Antico Testamento che sospirarono a Lui, e soprattutto alla fede di san Giuseppe e della Vergine Madre sua, ammirabili esemplari di fede profonda, perché lo contemplarono nella fralezza della sua vita mortale, nel nascondimento della sua maestà e nell’umiliazione estrema cui si ridusse per amore. Maria, poi, lo contemplò sul Calvario e nel sepolcro con vivissima fede, e fu l’unico Cuore nel quale rimase intatta, anzi ingigantita, la fede, quando tutto sembrò fallito, per la tragedia della Passione
Don Dolindo Ruotolo
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domenica 5 aprile 2015

Gesù ti ama!

« Ciò che vuoi accendere dagli altri deve prima bruciare in te », diceva Sant'Agostino. Che il Fuoco d’Amore divino sciolga i nostri cuori induriti affinché portiamo con passione ai nostri fratelli e sorelle la Notizia Migliore : « Gesù ti ama ! È morto e risorto per te ! »
Ave Maria e avanti tutta!
Maria M.
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Messaggio Medjugorje a Mirjana del 02.04.2015

Cari figli
ho scelto voi, apostoli miei, perché tutti portate dentro di voi qualcosa di bello. 
Voi potete aiutarmi affinché l’amore per cui mio Figlio è morto, ma poi anche risorto, vinca nuovamente. 
Perciò vi invito, apostoli miei, a cercare di vedere in ogni creatura di Dio, in tutti i miei figli, qualcosa di buono e a cercare di comprenderli. 
Figli miei, tutti voi siete fratelli e sorelle per mezzo del medesimo Spirito Santo. Voi, ricolmi d’amore verso mio Figlio, potete raccontare a tutti coloro che non hanno conosciuto questo amore ciò che voi conoscete. 
Voi avete conosciuto l’amore di mio Figlio, avete compreso la sua risurrezione, voi volgete con gioia gli occhi verso di lui. 
Il mio desiderio materno è che tutti i miei figli siano uniti nell'amore verso Gesù. 
Perciò vi invito, apostoli miei, a vivere con gioia l’Eucaristia perché, nell'Eucaristia, mio Figlio si dona a voi sempre di nuovo e, col suo esempio, vi mostra l’amore e il sacrificio verso il prossimo. 
Vi ringrazio.
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